Egemonia

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A cura di Falaghiste

L’egemonia (in greco antico: ἡγεμονία, eghemonìa = comando, primato) era, nell’antica Grecia, la preponderanza di uno stato all’interno di una lega (come Atene nella lega delio-attica, Tebe nella lega beotica e nella lega peloponnesiaca) o di un’alleanza fra stati (come Sparta nella seconda guerra persiana).

Il termine “egemonia” è nato nell’antica Grecia, e deriva dal verbo ἡγέομαι (che significa “condurre, portare avanti”). Il problema dell’egemonia fu studiato nell’antica Grecia da Senofonte nelle Elleniche: nel libro VI, cap. 3-5 a proposito dell’egemonia tebana, e nel libro VII.

I singoli stati greci erano indipendenti ma facevano parte di una lega, e le decisioni relative alla politica estera (ossia alla pace e alla guerra), visto che interessavano tutta la lega, erano di competenza della lega nel suo insieme e non del singolo stato. La rapidità con cui occorreva prendere decisioni militari, tuttavia, richiedeva che la direzione della guerra fosse in mano a un solo stato, lo Stato egemone. L’egemonia si esplicava pertanto soprattutto nel comando militare: gli Stati alleati ponevano le proprie truppe e parte delle risorse economiche agli ordini dei magistrati o dei sovrani dello stato egemone, conservando per il resto inalterata la propria autonomia, almeno in via teorica. Nei fatti, in età classica l’egemonia di Sparta e Atene era anche di tipo spirituale, poiché le due nazioni rappresentavano ciascuna ideali di vita molto differenti fra di loro.

L’uso moderno del termine è in gran parte dovuto all’analisi dell’egemonia formulata da Antonio Gramsci per spiegare perché le rivoluzioni comuniste, auspicate dalla teoria marxista, non si sono verificate nei paesi capitalisti quando erano attese. Secondo Gramsci, questo fallimento delle previsioni è stato dovuto al controllo dell’ideologia, della autocoscienza e dell’organizzazione dei lavoratori da parte della cultura borghese egemone. L’analisi gramsciana dell’egemonia culturale è stata introdotta in termini di classe (in senso marxista), ma può essere applicata in termini più generali: l’idea che le norme culturali prevalenti non debbano essere viste come “naturali” o “inevitabili” ha avuto un’enorme influenza sia nel campo politico che nel campo scientifico.

Tuttavia, secondo l’interpretazione corrente dell’egemonia gramsciana, per poter arrivare alla rivoluzione comunista sarebbe necessario combattere, prima, una “guerra di posizione” per sostituire l’egemonia culturale della borghesia con quella degli elementi anticapitalisti. Ancora oggi non è raro sentire affermare che ci vuole “una rivoluzione culturale”, punto e basta. Una rivoluzione culturale senza una rivoluzione sociale è una stupidaggine tale che nemmeno il più vetusto conservatore (con un po’ di buon senso) prenderebbe in considerazione; figuriamoci un comunista. Eppure si è incuneata nel pensiero del popolo-sinistro come giustificazione della propria ipocrisia piccolo borghese.

Così, non potendo ignorare Gramsci, basta revisionarlo tagliandone un pezzo e il gioco è fatto.

Questa interpretazione, infatti, è funzionale alla riduzione di Antonio Gramsci ad un intellettuale nazional-popolare piuttosto che a un rivoluzionario, che non ha mai abiurato alla necessità del comunismo e alla relativa abolizione per via rivoluzionaria (cioè inevitabilmente violenta, come ogni cambiamento epocale) del sistema capitalista di mercato. In realtà “egemonia” per Gramsci non si riduce ad un concetto circoscritto alla sfera culturale, ma ad una concezione composita e dinamica all’interno della guerra fra classi o gruppi sociali per il controllo del potere politico.

Vi è distinzione fra direzione – egemonia intellettuale e morale – e dominio – esercizio della forza repressiva: «Un gruppo sociale è dominante dei gruppi avversari che tende a liquidare o a sottomettere anche con la forza armata, ed è dirigente dei gruppi affini e alleati. Un gruppo sociale può e anzi deve essere dirigente già prima di conquistare il potere governativo (è questa una delle condizioni principali per la stessa conquista del potere); dopo, quando esercita il potere ed anche se lo tiene fortemente in pugno, diventa dominante ma deve continuare ad essere anche dirigente». (Da “Quaderni dal carcere” ed. Il rinascimento, p.70)

La crisi dell’egemonia si manifesta quando, anche mantenendo il proprio dominio, le classi sociali politicamente dominanti non riescono più a essere dirigenti di tutte le classi sociali, non riuscendo più a risolvere i problemi di tutta la collettività e a imporre la propria concezione del mondo. A quel punto, la classe sociale subalterna, se riesce a indicare concrete soluzioni ai problemi lasciati irrisolti dalla classe dominante, può diventare dirigente e, allargando la propria concezione del mondo anche ad altri strati sociali, può creare un nuovo «blocco sociale», cioè una nuova alleanza di forze sociali, divenendo egemone. Il cambiamento dell’esercizio dell’egemonia è un momento rivoluzionario che inizialmente avviene a livello della sovrastruttura– in senso marxiano, ossia politico, culturale, ideale, morale –, ma poi trapassa nella società nel suo complesso investendo anche la struttura economica, e dunque tutto il «blocco storico», termine che in Gramsci indica l’insieme della struttura e della sovrastruttura, ossia i rapporti sociali di produzione e i loro riflessi ideologici.

Se adagiamo la teoria dell’egemonia alla situazione attuale, cioè alla crisi di direzione delle classi dominanti (politica, economica, ideale e morale) ma non ancora del dominio (come monopolio statale della violenza), si può dedurre che vi siano le condizioni per l’abbattimento del “blocco storico dominante”. Ciò che manca è una direzione delle classi sociali subalterne; ma per questo dobbiamo lavorare ancora un po’.

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