Morenismo, scuola di un trotskismo deviato

La carriera politica della “tigre bruna” Hugo Bressano (1924 – 1987) è tanto lunga quanto confusa. Nel presente testo non si parlerà delle esperienze di Nahuel Moreno nelle più diverse organizzazioni precedenti la Liga Internacional de los Trabajadores – Cuarta Internacional, sua creatura, e dei contestuali andirivieni teorico-politici del dirigente argentino. Analizzeremo l’ultimo Moreno, quello che negli anni ‘80 fonda il suo coordinamento quartinternazionalista con cui dà corpo al suo personale trotskismo in forma definitiva. Lo scopo è di fornire una strumentazione concettuale davanti al più importante fenomeno del morenismo, cui l’intera LIT-CI è improntata.

Ciò che rende il morenismo un trotskismo sui generis è la più spregiudicata revisione del pensiero di Trotsky mai effettuata nella storia del trotskismo. Revisione gravida di conseguenze.
Ogni operazione revisionista, per avere la forza di creare una corrente tanto profondamente eterodossa, deve attuarsi su punti vitali della stessa teoria di partenza. E così è: nelle opere della maturità, l’oggetto di revisione di Moreno fu nientemeno che la teoria della rivoluzione permanente. Sul dichiarato, e rimarcato – e indicato quale unica via ai rivoluzionari del mondo – abbandono di questa teoria, egli basò la rilettura della rivoluzione sovietica proprio rispetto alla quale il fondatore della IV Internazionale la elaborò.

Riporteremo via via gli stralci nodali dello stesso Moreno al fine di demistificare una volta per tutte l’immagine del morenismo come di qualcosa che abbia a che fare col trotskismo, al netto degli autoattestati che lasciano il tempo che trovano, e di una internazionale che si pretende rivoluzionaria mentre si pone ostinatamente sui terreni più reazionari ad ogni occasione di crisi di sistema. Ma procediamo con ordine.

Il morenismo assume Trotsky epurato dalla concezione della trascrescenza, la quale viene giudicata inadeguata a interpretare la storia delle rivoluzioni (vedremo più avanti cos’è che Moreno chiamerà “rivoluzioni”) mondiali del dopoguerra. È questo “Trotsky senza la rivoluzione permanente” che prende il nome di morenismo.

Chi conosce il pensiero di Trotsky, e la storia della rivoluzione bolscevica, e poi della controrivoluzione stalinista, sa una cosa: che il termine “trotskista” viene coniato da Stalin con accezione negativa durante le lotte di partito tra l’Opposizione bolscevica guidata da Trotsky e la Segreteria burocratica capeggiata da Stalin stesso. E sa che con la creazione di questo termine, il boss della controrivoluzione intese affermare che l’opposizione di Trotsky al riflusso nazional-burocratico fosse altro dal bolscevismo, dal leninismo.
Falso, al punto che i rivoluzionari non denominarono la loro frazione “Frazione trotskista” ma “Opposizione bolscevica”, in quanto di quest’ultima esprimeva la fedeltà alla linea del partito bolscevico nei giorni prima, durante e subito dopo la rivoluzione. Falso, al punto che il tappismo, il nazionalismo, il ritardo dell’industrializzazione e la subalternità della classe operaia alla direzione rivoluzionaria borghese (Stalin e il Kuomintang in Cina, Stalin e la resistenza internazionalista in Europa, Stalin e la guerra civile in Spagna), erano elementi programmatici di centristi e menscevichi, prima che di Stalin che, sfrontatamente, recuperava quel programma e lo etichettava di “leninismo” contro i leninisti veri.

I “trotskisti” presero ad accettare questo termine coniato e affibbiatogli dal loro assassino solo nel significato di “leninisti antistalinisti” (visto che gli stalinisti ebbero, e hanno, la disonestà di continuare a dirsi leninisti), che si ricollegavano a una teoria, quella sì, peculiarmente figlia di Lev Trotsky, che agli inizi non fu compresa da molti bolscevichi, Lenin incluso («Mai, in nessuno scritto, Lenin esamina o cita, sia pure en passant, il mio “Bilanci e prospettive” – ndr. testo dove prendono vita le questioni sulla rivoluzione permanente. Talune sue obiezioni contro la teoria della rivoluzione permanente, che non mi riguardano in nessun modo, provano con tutta chiarezza che Lenin non aveva letto questo scritto, Trotsky, 1929, da “La rivoluzione permanente”). Lo fu poco più avanti e lo fu al punto che alla luce di quella teoria si interpretò la storia della rivoluzione russa, e divenne la teoria ufficiale del partito.

Queste, dunque, le due sole accezioni positive nelle quali, a un trotskista, è possibile accettare tale definizione: antistalinismo e rivoluzione permanente. Moreno toglie la rivoluzione permanente. Resta con l’antistalinismo. È indispensabile, nel momento in cui tutto ciò che sei è un socialista “antistalinista”, definirti trotskista, con l’imbarazzo della scelta tra tutte le altre tendenze socialiste e antistaliniste profilatesi negli anni e presenti ancora in terra? Dai socialriformisti, già menscevichi, agli anarchici passando per i bordighisti e gli operaisti? Moreno rabbercia un sì di cartapesta che prende fuoco in un baleno alla benzina delle sue stesse parole e al cerino delle più semplici domande. Lasciando incenerito lo scheletro della vera risposta, che è no.

Diamo inizio alle danze. Scrive Moreno, in quel capolavoro di “apostasia” che è “Escuela de cuadros – Argentina”, 1984:

«Voglio ora accingermi a illustrare qual è la meccanica della teoria di Trotsky, una meccanica che, vedremo in seguito, reca alcune falle. Come ritiene, Trotsky, che si passi dalla rivoluzione democratico-borghese alla rivoluzione socialista? Per mezzo di una combinazione oggettiva di compiti o per mezzo di quello che nel marxismo e nella sociologia (?) si chiama il “soggetto storico”? Con soggetto si intende l’uomo. Con storico, un gruppo di uomini (? …semmai è con “sociale” che intendiamo un gruppo; con storico si intende il momento in cui sia l’uomo che gli uomini arrivano a essere “quell”’uomo e “quegli” uomini, con relativi compiti dialettici. Ma lasciamo stare la sociologia secondo Moreno). La meccanica è il modo come funziona un motore, come funziona una cosa. Con che ingranaggi, che benzina, la macchina passa dalla rivoluzione democratica alla rivoluzione socialista? Come funziona questo passaggio? Secondo Trotsky, come si passa dalla rivoluzione democratica alla rivoluzione socialista? Attraverso il soggetto o attraverso un processo inevitabile nel corso del quale la rivoluzione democratico-borghese, impattando contro settori della borghesia, diviene inevitabilmente socialista?
Può darsi che la macchina si trovi in pendenza e che proceda da sola. Allora assolvere ai compiti democratico-borghesi significherà cominciare ad attaccare il capitalismo. Oppure si ha a che fare con un fattore soggettivo?
Per Trotsky, il passaggio si ha per mezzo di un soggetto, ma sociale. La chiave, il motore, il meccanismo della rivoluzione permanente di Trotsky è il soggetto storico. Voi stessi potrete trovare che il famoso Preobrazhenskij, un grande trotskista che combatté a lungo con lui e fu piuttosto opportunista, ma fu un uomo quasi geniale, gli sottoporrà questo problema molti anni dopo. La sua polemica è tanto acuta che Trotsky ne è sorpreso e quasi non gli dà importanza alla prima risposta. Più tardi se ne accorge e invia una seconda risposta in cui dice “Accidenti! La tua osservazione è molto interessante. Ma non ha ragione. O ha ragione in un senso”
».

Preobrazhenskij, un “grande trotskista” che polemizzò e combatté a lungo Trotsky. Come Moreno. Che se non altro trova a quale pensatore richiamarsi invece di abusare ostinatamente della categoria di trotskismo. A meno che preobrazhenskismo non risulti di pronuncia difficile e “trotskista” valga da scorciatoia. Il lettore familiarizzi con le morenate e porti pazienza: concluderemo questa prima citazione da “Escuela cuadros” perché necessaria a metterne a nudo le falle (di Moreno, non quelle di Trotsky) che sono alla base di tutta la sua deviazione.

«Ciò che è in discussione è se la rivoluzione sarà socialista grazie alla classe operaia o grazie a una successione di avvenimenti. Perché una macchina si muova, esistono due maniere: una è che qualcuno la metta in marcia e la muova; l’altra è porla in cima a una pendenza, e la macchina si muove. In questo ultimo caso, il movimento è oggettivo, non lo ferma nessuno, è un processo oggettivo. Nel primo caso, se uno si mette al volante e la mette in moto, è sempre un processo oggettivo perché cammina, ma è anche soggettivo perché c’è qualcuno che la conduce. È un processo soggettivo che fa camminare la macchina: un soggetto, una persona. Questo significa “soggetto” filosoficamente e sociologicamente».

È esattamente qui che bisogna riassestare la questione. O si fa chiarezza nelle premesse o tutto il logos si compromette. Mentre Moreno tiene tanto (vedremo a che scopo) a dividere il soggetto dal processo oggettivo, il marxismo risponde che il soggetto è il processo oggettivo.
Il fatto oggettivo che il capitalismo, sistema di contraddizioni e crisi, crei una classe sociale sempre più larga di proletari, cioè un soggetto del suo insieme, questo fatto generalizza quel soggetto che però, in quanto prodotto e parte di un oggetto, è oggetto anch’esso. In breve, con soggettività non si può intendere l’esistenza della classe operaia come fa Moreno: il personaggino che si pone alla guida della vettura/processo storico.
La classe operaia è un fatto oggettivo. Non c’è “macchina”/oggetto senza “autista”/soggetto. Può esserci “macchina”/oggetto senza autista che guida/soggettività. Che a quel punto resterebbe ferma. Ma la storia non può rimanere ferma, il movimento mondiale del capitale avanza inarrestabilmente. Cosa succede allora?

Soggettiva è l’azione della classe operaia e lo sforzo che deve compiere per riconoscersi come tale.
Ma perché un oggetto deve compiere uno sforzo soggettivo per riconoscere la propria oggettività?
Perché concetto e oggetto non combaciano immediatamente?
È l’effetto dell’alienazione: la classe operaia, soggetto oggettivo, per capire che esiste oggettivamente e che ha da assolvere a compiti storici oggettivi in quanto riferiti a sé e al sistema intero, a sé che diviene sempre più sistema intero, deve “sforzarsi” perché non ha immediatamente coscienza di sé. Perché la borghesia, essa soggetto sempre più parziale, sempre più irrazionale e antisistemico, sempre meno oggetto perché sempre meno parte dell’oggetto, ha interesse a tenerla in questo stato.

La metafora con la macchina non calza, perché il guidatore si pone come essere altro dalla “cosa” che dovrà o meno guidare, che potrà o meno guidare. Mentre nella realtà, ripetiamo, la storia non può stare ferma in attesa di un guidatore, come nell’esempio della macchina. Nella realtà quello che Moreno presenta come l’autista è più paragonabile a un ingranaggio della macchina stessa, perché suo componente. La classe operaia è, in breve, oggetto e soggetto insieme. Non può scegliere di portare la macchina, la fa funzionare o la inceppa inevitabilmente perché è essa stessa el coche.

Diradiamo gli equivoci con la più appropriata metafora dell’ingranaggio: l’ingranaggio si brucia. Il motore fonde. Le valvole saltano. Gli ingranaggi si “ribellano” nel senso che non assolvono più alla loro funzione, la macchina si rompe. Poniamo che la macchina abbia programmata una tale potenziale velocità con la quale metaforizziamo le promesse di pace e di equità generale di una società democratico-borghese, col libero mercato come principio regolatore e il suffragio universale come guarentigia contro restaurazioni autrocratiche e ingiustizie di sorta.
Ecco, quelle aspettative, quelle possibilità non saranno più soddisfatte. La macchina potrà “andare” ancora per qualcuno. Per chi ha interesse che vada purché vada, va sicuramente. Ma andrà male, lenta, a fatica. Perderà ancora più pezzi. Sarà cioè un’altra macchina. Quella che è stata venduta per una crossover ultimo modello si rivela un vecchio bolide tubercolotico. Quegli ingranaggi e quelle funzioni sono ormai irrimediabilmente usurate, quella macchina non sarà più quella macchina. Oggettivamente. Sarà un’altra macchina. Un’altra società, rientrando di metafora, che può soddisfare solo certe esigenze, non altre, non più quelle che prometteva la ditta e la pubblicità. La macchina “generale” non può allora “generalmente andare” comunque e indipendentemente dal tipo di soggetto che ne sia alla guida.
L’analogia è fallace, soggettivista ed hegelo-idealista (lo “spirito”, guida delle nazioni disincarnato), dispiace per l’aspirante Eisenstein del preobrazhenskismo.

Ma perché questa insistenza, fuorviante e malposta, sulla questione soggetto-oggetto nel processo rivoluzionario?
Perché Moreno teorizza che in una situazione – summetaforizzata nella pendenza – “oggettivamente” di crisi, dove si è prossimi alla deflagrazione sistemica e allo sbocco socialista, il soggetto (quello che egli stabilisce esser tale, in contrapposizione dichiarata – ed è grottesco che lo riporti di suo pugno! – al pensiero di Trotsky, “soggetto sì, ma storico e sociale”, quindi soggetto inevitabilmente parte di un oggetto e perciò oggetto a sua volta) non per forza dev’essere il proletariato, non per forza dev’essere la classe operaia.
Di qui prende avvio tutta la deviazione del trotskismo di Nahuel Moreno.

Di qui si postula: se il terreno è oggettivamente inclinato, se oggettivamente la macchina sfonderà lo steccato capitalista e sconfinerà in campo socialista, che motivo c’è che, a guidare quella macchina, sia la classe operaia? Qualunque soggetto la guidi, essa andrà dove deve. È la strada che guida, il processo oggettivo. È la macchina che scivola in pendenza, inesorabilmente!
Potremmo chiedere: che motivo c’è, seguendo questo ragionamento, che qualcuno allora, chiunque – proletari rivoluzionari o borghesi democratici – si metta a guidarla, questa macchina? E se non c’è nessuno, cosa intendiamo con “guidare”? Cosa intendiamo con “andare”? “Andare” per interesse di chi? E se non c’è interesse, come può un sistema sociale procedere come sistema sociale senza una società interessata, senza scopi sociali relativi a rispettivi soggetti sociali da soddisfare? A meno di non incorrere, di nuovo, nello spirito di Hegel.
È chiaro che l’allegoria auto-autista è strutturalmente errata, ma non addentriamoci oltre nella matassa. Concentriamoci sul bandolo individuato: il soggetto sociale che deve o non deve (giacché ad ogni modo, per Moreno, verrà da sé) portare la rivoluzione, anzi: essere portato dalla rivoluzione.

Cosa dice la teoria della rivoluzione permanente di Trotsky?
Che le rivoluzioni democratico-borghesi non potranno mai assolvere ai compiti di giustizia e uguaglianza sociale. Ciò potrà solo essere compiuto da una rivoluzione proletaria e socialista.
Nel caso in cui in regimi semifeudali, coloniali o semicoliniali, o di iperreazione fascista, le borghesie più deboli – sempre tuttavia per propri esclusivi interessi – comincino una rivoluzione antifeudale (Trotsky la formula proprio a partire dal febbraio 1917), anticoloniale o antifascista, queste rivoluzioni borghesi potranno muoversi al fianco di una rivoluzione proletaria e socialista.

Non si può dire che è la stessa rivoluzione, se non parzialmente. Perché da un certo punto in poi gli obiettivi dei borghesi sono espressamente diversi e avversi a quelli dei proletari. È solo, per il momento, lo stesso tragitto storico, la stessa guerra civile. Una volta raggiunto il comune obiettivo progressivo tra forze piccolo-borghesi e forze proletarie che hanno concorso alla rivoluzione e alla formazione di un nuovo ordine, la guerra è ancora in corso. Il proletariato vedrà che il quadro di convivenza più o meno vantaggioso per sé, a seconda di quanto campo è stato capace di guadagnare sulla controparte, è insufficiente. Che la borghesia, per la legge di espropriazione, accumulo e competizione propria del capitalismo, continuerà a muovere guerra a quella parte sociale della quale è, formalmente, partner pacifico in una socialdemocrazia ancora capitalista o semicapitalista. Continuerà a muovere guerra alla classe operaia. E la classe operaia, a sua posta, vedrà costantemente ridimensionate, ignorate, smantellate nell’interesse borghese quelle conquiste per le quali ha lottato nella rivoluzione e che aveva intenzione di espandere, non certo di perdere.
Il conflitto è ancora aperto. La classe operaia, a quel punto, se avrà avuto una buona avanguardia, capace di formare marxisticamente i lavoratori durante la rivoluzione, sarà ancora pienamente in possesso di tutto l’armamentario concettuale e materiale per portare a termine la sua guerra, ora contro l’argine borghese.
Questa è la rivoluzione permanente.

E vale, lo ripetiamo, non solo nel caso di regimi semifeudali.
Non è solo questo il caso – un caso ormai estinto nel panorama mondiale del ventunesimo secolo – che può originare una “rivoluzione di febbraio”, cioè una rivoluzione partecipata in prima battuta da settori della piccola borghesia ribelle insieme col proletariato e che poi, egemonizzata dal proletariato, sfocerà in rivoluzione d’ottobre, in rivoluzione socialista inevitabilmente.

Scrive Moreno: «C’è una citazione che utilizziamo in forma molto riservata, tanto che non vogliamo che si utilizzi per iscritto (ce ne avvaliamo per la discussione contro il mandelismo) in cui Trotsky dice testualmente che lo sciopero generale è la rivoluzione di febbraio francese (1936). Cioè definisce lo sciopero generale come rivoluzione di febbraio. Perché, per noi, è una citazione terribile contro il mandelismo? Perché il mandelismo ci attacca dicendo che è ridicolo che si abbiano rivoluzioni di febbraio, incoscienti. Dice che si hanno rivoluzioni di febbraio solo dove si ha feudalesimo. Pertanto questa citazione dimostra, in primo luogo, che si ha rivoluzione di febbraio in Francia, un paese ad alto sviluppo capitalistico; che la rivoluzione di febbraio non è democratico-borghese contro il feudalesimo e, in secondo luogo, che è super-incosciente, a un livello che nessuno può negare».

Moreno è un contrabbandiere di professione. La rivoluzione del febbraio francese 1936 non c’entra niente col febbraio russo. Niente, nelle analisi di Trotsky, che unisca la legge del febbraio russo col febbraio francese. Il “febbraio” non è una categoria concettuale negli scritti di Trotsky sul ’36 francese. È proprio il mese in cui si sono svolti i fatti trattati. La coincidenza di quel “febbraio” basta a Moreno per dire che Trotsky stava parlando del “febbraio russo” come categoria concettuale, e non come il mese particolare. Quanto squallore! Tutto disperatamente riciclato e contraffatto perché il morenismo possa rileggere in senso bolscevico il febbraio russo preso a sé, preso separatamente dall’ottobre.

Nel ’36 Trotsky proclamava l’unione dei socialisti e dei comunisti dei rispettivi partiti e sindacati, e per la precisione i militanti di base, le avanguardie proletarie, non gli irrecuperabili vertici, affinché si armassero contro l’avanzata fascista. E non si tratta nemmeno del febbraio ‘36, ma del febbraio ‘34, quando non avviene assolutamente nulla di rivoluzionario, anzi: “le bande armate del capitale finanziario” (Trotsky), i fascisti, si armano, sparano e preludono alla presa della città. E Trotsky critica ferocemente quanti si illudono che il loro disarmo unicamente per via democratica e parlamentare possa salvare la Francia dal fascismo. Quando Trotsky scrive “La rivoluzione francese è cominciata” è il 9 giugno 1936. Non si riferisce a nessun febbraio.
Cosa c’entra perciò la fantomatica risposta di Mandel “No, le rivoluzioni di febbraio possono darsi solo in caso di feudalesismo”, quando il febbraio francese non solo non è una rivoluzione, ma non c’entra concettualmente niente col febbraio russo antizarista? Si capisce perché queste baggianate Moreno prescrivesse di non renderle pubbliche… Il ridicolo le annegherebbe ancor oggi.

Ma vogliamo essere buoni. Teniamoci sulla linea squisitamente teorica di Moreno. Poniamo la polemica di Mandel contro la possibilità di “rivoluzioni di febbraio” perché le rivoluzioni di febbraio, inteso come febbraio russo, possono darsi solo in regime di feudalesimo.

A leggerla in questo modo, la rivoluzione di febbraio è uno specifico storico, un evento unico. Decadrebbe al pari di come decade in Moreno, ma dal versante opposto. In medio stat veritas: se Mandel sostiene che, essendo scomparso il feudalesimo, la borghesia non potrà più affiancare il proletariato nella lotta per obiettivi provvisoriamente comuni, perché l’unico nemico che possono condividere proletari e borghesi è l’ordine feudale, e che allora non potranno esserci “rivoluzioni di febbraio” seguite da “rivoluzioni d’ottobre”, ma solo immediatamente rivoluzioni d’ottobre, non siamo d’accordo. Perché nel tal caso, la rivoluzione permanente non si capisce di che cosa parli.

La categoria concettuale di “rivoluzione di febbraio” può essere usata anche senza feudalesimo.
Perché non deve identificare, per forza e solo, una rivoluzione antifeudale. Con “rivoluzione di febbraio” possono intendersi tutti quelle convulsioni, quei sollevamenti, quei momenti di conflitto sociale a cui taluni settori della classe media sono, per quanto confusamente, guadagnati.
La piccola borghesia è perennemente in crisi, perennemente in bilico, perennemente minacciata. Così dopo, per esempio, aver dato sostegno al fascismo perché convinta che le sue crisi potessero risolversi con olio di ricino e guerre alla sabbia, e dopo esserne stata delusa e calpestata come e peggio di prima, ecco che questa piccola borghesia combatte il fascismo ma, quando lo fa a proprio nome, non lo fa in una prospettiva dialettica, non lo fa con obiettivi storici e sociali progressivi. Lo fa per raggiungere, in assenza di quella visione dialettica che la porterebbe altrimenti a lottare tra le fila del proletariato cosciente, un nuovo, fantomatico, egoistico stato di benessere inseguendo un altro ordine che potrà più o meno lungamente (i tempi dipendono sempre da quanta parte avrà il proletariato nell’instaurazione di tale ordine) garantirne questo benessere.

«Conformemente alla sua posizione economica, la piccola borghesia non può avere una politica indipendente. Oscilla sempre tra i capitalisti e gli operai. Il suo strato superiore la spinge a destra; i suoi strati inferiori, oppressi e sfruttati, in certe condizioni sono capaci di effettuare una brusca svolta a sinistra. Appunto queste relazioni contraddittorie tra i diversi strati delle “classi medie” (ne) hanno sempre determinato la politica confusa» (Trotsky, “Dove va la Francia?”, 1934 – ‘36).

Nei moti contro le aberrazioni che la stessa classe media ha concorso attivamente o passivamente a creare, classe media e classe operaia possono marciare insieme anche dietro slogan diversi e purché rappresentino un avanzamento dal pantano della decadenza presente, mai un arretramento.
Gli uni vorranno una repubblica in astratto, generalmente progressiva e risolutrice di taluni danni, non connotata classisticamente; gli altri, una repubblica operaia. Se avranno vinto i primi, avrà vinto la rivoluzione di febbraio, come vinse provvisoriamente nella Russia del ‘17. Spetterà al proletariato continuare la sua propria rivoluzione fino all’ottobre. Nel caso lo scontro non sarà “popolare” contro una espressione particolare della resistenza borghese, ma operaio contro la borghesia intiera (perché questo caso si dia, occorre che non vi siano forze politiche piccolo-borghesi e che la piccola borghesia proletarizzata o in via di proletarizzazione riempia già le fila operaie) le condizioni storiche e soggettive delle masse porteranno direttamente alla rivoluzione d’ottobre.

Nello scontro Mandel-Moreno ci troviamo tra chi nega che possano esserci rivoluzioni di febbraio perché non ha capito cosa sono le rivoluzioni di febbraio, e chi afferma che le rivoluzioni di febbraio possano esserci senza la classe operaia, senza chi porterà la rivoluzione di febbraio alla rivoluzione d’ottobre, e quindi senza che la rivoluzione di febbraio possa dirsi “rivoluzione di febbraio”. Tale, appunto, alla sola e irrecusabile condizione che si proponga di diventare rivoluzione d’ottobre. E per farlo è indispensabile la classe operaia. Senza il contributo operaio e senza carattere socialista, un cambiamento non è una rivoluzione. Una sostituzione di governo borghese con un altro, fatto di golpi, cambi di forme amministrative, di redistribuzione dello sfruttamento, di norme e normicciuole in costituzioni che non incidono strutturalmente nei rapporti di proprietà ma che anzi aggraveranno il quadro se continueranno a operare nel rispetto del capitalismo, tali situazioni non possono chiamarsi rivoluzioni perché non esprimono ragioni storiche progressive. Tutto quanto nasce e si esaurisce nel circuito borghese non esprime ragioni storiche progressive. Moreno non vede questa verità rudimentale per ogni marxista, e nelle sue continue vivisezioni a colpi d’accetta e con un occhio bendato, uccide il paziente e dà dei “maniaci della classe operaia” ai maestri che rinnega. Ecco il colmo dell’eresia:

«Noi crediamo che in questi ultimi quarant’anni si siano prodotti diversi fenomeni che Trotsky non previde, che ci obbligano a cominciare a elaborare tra tutti, o lo faranno alcuni entro pochi anni, una nuova formulazione, un nuovo modo di scrivere la teoria della rivoluzione permanente considerando tutti questi problemi. Dobbiamo teorizzare che non è obbligatorio che la classe operaia e che un partito marxista rivoluzionario con influenza di massa siano chi diriga il processo della rivoluzione democratica verso la rivoluzione socialista. Non è obbligatorio che sia così. Al contrario: si sono date, e non è escluso che continueranno a darsi, rivoluzioni democratiche che nel terreno economico si trasformano in socialiste. E cioè rivoluzioni che espropriano la borghesia senza tenere come asse essenziale la classe operaia o tenendola come partecipante importante, e non avendo partiti marxisti rivoluzionari alla testa, ma partiti piccolo-borghesi».

Non parla Pippo Civati. Purtroppo è il lascito del fondatore di un coordinamento internazionale che pretende di rifarsi al grande dirigente del proletariato.

«Concretamente, è stata data una delle più importanti leggi dello sviluppo ineguale e combinato, leggi che sono differenti, e disgraziatamente Trotsky non la applicò. Trotsky peccò nel voler porre un segno uguale e dire: “Rivoluzione operaia = la fa la classe operaia = la fa un partito marxista rivoluzionario”. Commise di nuovo questo errore gravissimo, che è di logica formale, di credere che tutto sia uguale a tutto, e non sia diseguale e combinato».

O Moreno sovverte scientemente la legge dello sviluppo ineguale e combinato o non ne ha capito un’acca. La legge dello sviluppo ineguale e combinato di Trotsky sostiene esattamente il contrario di quanto illustra Moreno. E cioè che persino i paesi più arretrati – com’era la Russia di Nicola II – devono fare e non possono che fare la rivoluzione bolscevica. Non che i paesi sviluppati debbano fare quella menscevica. Tentare di contraddire Trotsky con lo stesso Trotsky perché vuoi essere trotskista. Possiamo anche farne a meno. Povero Moreno!

«Non considerò una delle più importanti leggi dello sviluppo ineguale e combinato, che dice che settori di una classe possono fare la rivoluzione di un’altra classe».

Trotsky ha insegnato urbi et orbi che debba essere la borghesia a fungere da stampella al proletariato cosciente e via via egemonico, non il contrario. Pensa Moreno che la borghesia sia così buona da elargire al proletariato quanto gli occorra senza pressioni, senza una sua avanzata autonoma e contraria? Avrebbe dovuto riscrivere l’intero Marx, l’intero Engels e l’intero Lenin. Non solo “La rivoluzione permanente” di Trotsky. Anche se, intelligenti pauca, è quello che fa.

«Trotsky», continua Moreno, «diceva “rivoluzione democratica” e non poneva segno uguale; chi poneva segno uguale erano i menscevichi. I menscevichi dicevano: “Rivoluzione democratica = la fa la borghesia”. E Trotsky rispondeva dicendo “Vedete, non siete dialettici! Chi pone il segno uguale fa una catastrofe, è un metafisico. Non c’è segno uguale, c’è lo sviluppo ineguale e combinato».

Il virgolettato di Trotsky in Moreno è sistematicamente immaginario. Ed è l’apoteosi. Moreno confessa la sua fede menscevica. È ovvio che la rivoluzione democratica non può farla solo la borghesia, perché i compiti di una rivoluzione democratica e borghese contestano dinamiche stesse della società borghese e del capitalismo: il borghese non lo sa – e va guadagnato alla dialettica – o si rifiuta di saperlo – e va combattuto come reazionario e nemico di classe. Ma il contrario non vale assolutamente: la rivoluzione socialista può farla solo il proletariato e la borghesia proletarizzata (dunque, tecnicamente, sempre il proletariato), non la borghesia per conto di esso. Il proletariato marcia a fianco della borghesia che, transitoriamente, episodicamente, può passare dalla tappa della “socialdemocrazia borghese”, dipendentemente dai casi concreti. In questa tappa il proletariato ha guadagnato, ma non finito. Perciò è una stazione provvisoria e occasionale. Ma nel caso contrario, cos’ha una borghesia che voglia pervicacemente conservarsi come tale e crescere, anzi, come tale, da conservare e da guadagnare da una rivoluzione socialista, quando questa rivoluzione socialista minaccia di privarla dello stesso status di borghesia?

Come ricorda Moreno, furono i menscevichi i fautori del tappismo (teoria che niente ha a che vedere con la episodicità di tappe dialettiche come la rivoluzione di febbraio, cui i bolscevichi parteciparono lanciando a distanza di pochi mesi il grido “Nessuna fiducia al governo Kerenskij!”; ma consiste nel mantenimento di quella tappa, in vista di una rivoluzione che si vedrà non si sa quando, dacché ad ogni crisi è sempre il momento, per i menscevichi, di dire che “non è il momento” – così fallì la Seconda Internazionale, così pensavano trudovichi, socialisti rivoluzionari, socialdemocratici, Bund, ecc).
E Moreno cosa fa? Esattamente quello che facevano i menscevichi: dire “la rivoluzione democratico-borghese devono farla i borghesi”. Il proletariato può assistere buono e bravo, far esso da stampella alla borghesia e sperare che questa gli renda il dovuto espropriandosi da sola; quei partiti che pensano che il proletariato debba dirigere la rivoluzione, “peccano di logica formale”. Come può Moreno dirsi trotskista e professare del menscevismo plateale? Peggio: Moreno dice (implicitamente, ndr) che Trotsky non ha mai cessato il suo menscevismo. Che provò ad essere “dialettico” quando formulò la tesi dello sviluppo ineguale e combinato, ma che intimamente rimase sempre, come i menscevichi che accusò, un antidialettico quando non seppe applicarla fino in fondo.

È un sovvertimento totale, una rassegna di macelleria. Ma il bello deve venire.

«Trotsky dice questo: “Non mi freghi: se il processo è oggettivo, questo processo va al socialismo”. Porto l’esempio all’assurdo: la rivoluzione democratica si trasforma in socialista anche se la fa un mascalzone, un prete, se il soggetto sono i preti e il partito è un partito di preti. E Trotsky risponde: “Se è quello che fa, fa la rivoluzione socialista; se fa la rivoluzione democratica fino in fondo, essa si è già contaminata col socialismo. Questo è il suo processo oggettivo reale perché il capitalismo è intimamente unito ai latifondisti e all’imperialismo”. Questo era quello che voleva dire Trotsky».

Ciò per Moreno. Per Trotsky, invece:
«Qualunque siano le prime tappe episodiche della rivoluzione nei vari paesi, l’alleanza rivoluzionaria del proletariato e dei contadini è concepibile solo sotto la direzione politica dell’avanguardia proletaria organizzata in partito comunista. (…) La funzione dei contadini, qualunque sia la sua importanza rivoluzionaria, non può essere una funzione indipendente e, ancora meno, dirigente. Il contadino segue l’operaio o il borghese. Ciò significa che la “dittatura democratica del proletariato e dei contadini” è concepibile solo come “dittatura del proletariato che trascini dietro di sé le masse contadine”» (Trotsky, “La rivoluzione permanente”).

«Pertanto», continua Moreno «se vuoi difendere la nazione argentina o cinese, e vuoi difendere i contadini, anche se dici: “Io non voglio difendere la classe operaia”, fai socialismo, perché stai toccando il capitalismo che è il grande nemico dei lavoratori. E se hai una classe o un partito che non sono operai ma vogliono questo, essi fanno socialismo perché vogliono espropriare l’ottanta o il novanta per cento della proprietà capitalista».

Potremmo ingaggiare una guerra infinita a colpi di citazioni. A qualsiasi passo di qualsiasi scritto di Trotsky su tali questioni, queste opinioni sono bollate di filisteismo e del più sordido menscevismo.
Ma non lo facciamo, e ricorriamo alla logica elementare: per quale ragione dovrebbe esserci un partito o una classe che voglia difendere solo i contadini e non la classe operaia? Le sorti delle masse contadine salariate, le dinamiche di sfruttamento cui sono soggette, sono le medesime della classe operaia industriale. Un partito che si rifiutasse, in un paese avanzato dove non solo gli operai esistono ma aumentano febbrilmente rispetto ai contadini, di unirsi agli operai non può essere un partito rivoluzionario. Solo un partito e solo un gruppo di uomini può avere interesse a difendere le “questioni della terra” non generalizzando il problema, non volendo difendere la classe operaia: i terratenientes, i medi e piccoli borghesi delle campagne, i kulaki. In Italia un movimento del genere si è recentemente visto coi “forconi”, i quali pure straparlavano di “nazione” e “proprietà della terra”. Il movimento era esplicitamente reazionario e latifondista, con ammanicamenti fascisti e mafiosi. Eh già, che per Moreno anche un canalla può fare la rivoluzione!

Il morenismo, benché si pretenda più realista del Re e polemizzi contro presunti schematismi altrui, non trova nessuna applicazione nella realtà per la semplice ragione che non esiste “la borghesia” o l’“imperialismo-capitalismo” come sistema unito e armonico. Se si desse unità e armonia al suo interno, cosa ne determinerebbe le crisi, le contraddizioni crescenti, le inarrestabili lacerazioni?
Karl Kautsky aveva sviluppato una teoria del genere: vedeva l’imperialismo come un moloch unito, coeso e solidale in sé e per sé, di fronte a tutto ciò che gli stava fuori come proletariato, specularmente coeso e solidale, inevitabilmente. Era la teoria del superimperialismo, che Lenin criticò aspramente perché rimuovendo le possibilità di crisi innumerevoli e di autofagia borghese dell’imperialismo, sottovalutava l’importanza della lotta operaia.
L’allusione era, similmente che in Moreno: abbandoniamo la costruzione faticosa della soggettività rivoluzionaria, del partito operaio, della presa violenta del potere. La realtà lo farà da sé: creerà da sé parti e controparti immediatamente coscienti perché anche il borghese in rovina non potrà che capire l’iniquità del sistema che lo ha rovinato. E parteggerà spontaneamente per la rivoluzione anticapitalista e antimperialista. È chiaro che a pensarla così, dice Fantozzi, “ci vorranno almeno mille anni”. E i Kautsky, che sono poi i menscevichi, sponde sinistre del padronato d’ogni dove, rispondono: “Posso aspettare”.
Lenin invece, personcina concreta, osserva che quando la borghesia non arriva all’uva, fa la guerra agli altri borghesi, partorisce il fascismo e i conflitti mondiali – di cui il quadro imperialista è permeato – attraverso i quali ogni borghese in lotta con altri si contenderà il timone del mercato mondiale. Anche quelli che cominciano a raccogliere le forze “nazionalmente”, “sovranisticamente”. La borghesia non ha razionalità: quando rischia di trovarsi fuori dai giochi, non condanna il gioco, ma tira fuori i coltelli contro gli altri concorrenti.
Non c’è speranza, altroché, che la piccola borghesia imbocchi la via del socialismo senza la pressione e senza la catalizzazione operaia. E come potrebbe se – hanno dimostrato i fatti – non la imbocca nemmeno quando una pressione operaia, per quanto debole, c’è? «Conformemente alla propria posizione economica, la piccola borghesia non può avere una politica indipendente». Mai l’ha avuta e mai l’avrà.

«Sfortunatamente Trotsky non sviluppò a fondo questa concezione. Tornò molte volte all’analisi dei due soggetti. Solo nella polemica con Preobrazhenskij e in poche altre occasioni ha sviluppato questa concezione. Ma poche volte; si soffermò su altro. Scrisse, invece, barbarità come quella che ho detto: che in Cina la guerrilla avrebbe originato un governo reazionario, che non serviva, che la caduta di Chiang Kai-shek non serviva per niente, che sarebbe servita solo se il proletariato incominciava la lotta. È anche un’analisi economica e sociale interessante, ma maniacale; era un maniaco della classe operaia».

Un “maniaco della classe operaia”. A cosa serve commentare?
Sarebbe stato bello che Moreno avesse usato la cortesia di riferire la bibliografia a proposito di questi pronunciamenti su Chiang Kai-shek (come sul febbraio russo del ‘17 applicato al febbraio francese del ‘36) invece di costringerci ad assistere a dialoghi beckettiani tra sé e il “trotskolino” che lo asseconda nella sua testa. Ma così è più facile adulterare e rispondere da soli alle adulterazioni, ci rendiamo conto.

«Disgraziatamente, per questo schematismo dei soggetti, Trotsky, se non vedeva la classe operaia avanzare coi suoi sindacati e i suoi soviet e un partito marxista rivoluzionario, è sempre stato restìo a vedere la possibilità di una rivoluzione. Quanto più in fretta rinneghiamo questo schema, tanto meglio è per noi, perché siamo stati decenni a morderci la coda: “è la rivoluzione?”, “non è la rivoluzione?”. E sì: sono rivoluzioni. Concludiamo la questione. Continuiamo tuttavia a credere che la teoria della rivoluzione permanente è la più grande teoria rivoluzionaria che si sia mai trovata. Crediamo che le due più grandi scoperte di questo secolo siano la rivoluzione permanente, lo sviluppo ineguale e combinato, l’imperialismo – che scoprì Lenin – e il partito – che scoprì sempre Lenin. Perché? Perché continuiamo a credere che sia la teoria più importante? Abbiamo segnato, finora, dov’è che Trotsky ha sbagliato. Perché crediamo che sia la teoria delle teorie?»

Siamo arrivati all’essenza del morenismo. Signore e signori, tenersi forte! Ci siamo: finora Moreno ci ha illuminati sugli errori della teoria della rivoluzione permanente. E sfidiamo chiunque a immaginare come possa recuperarla: l’ha praticamente maciullata. Non un pilastro su cui si basava è stato lasciato in piedi. Ciononostante, Moreno dice che i morenisti devono continuare a credere che sia “la teoria delle teorie”. Devono rinnegarla da una parte, seguirla dall’altra.
Così come la legge dello sviluppo ineguale e combinato, che non solo non ha capito, ha addirittura sovvertito. Come l’imperialismo di Lenin, dove è più vicino al superimperialismo kautskiano che all’imperialismo secondo Lenin. E infine come la teoria del partito, sempre di Lenin, che però ha, essa pure, svuotata delle sue determinazioni vitali e relegato alla disciplinata subalternità ai trionfanti partiti democratico-borghesi rivoluzionari. Cosa mai ci aspetta?

«Perché crediamo che sia la teoria delle teorie? Perché se non avanza la rivoluzione mondiale avanza la controrivoluzione. Cioè o la rivoluzione è permanente o ci si arresta e si arretra. Trotsky aveva ragione che non vi sono rivoluzioni nazionali, che vi è una rivoluzione mondiale. Come ebbe ragione che, chiunque diriga il processo, se questo avanza si trasforma in socialismo, non c’è modo di evitare che si raggiunga il socialismo. Questi due successi sono colossali perché la storia ha fatto trotskismo, ha fatto rivoluzione permanente. E lo ha fatto contro quelli che dirigono il processo storico, perché Mao Tse-Tung ha preso il potere per non espropriare la borghesia, lo ha detto un milione di volte e, tuttavia, dopo tre o quattro anni, ha dovuto espropriare la borghesia. Stalin occupò l’est Europa d’accordo con l’imperialismo perché le masse non espropriassero la borghesia; dopo tre, quattro anni espropriò la borghesia. Trotsky aveva ragione: se uno procede contrastando l’imperialismo, deve terminare espropriando la borghesia. È qualcosa di geniale, anche dentro il suo errore. I suoi errori sono parziali».

Stalin che occupa l’est Europa (per evitare che le masse esproprino la borghesia?) d’accordo con l’imperialismo ma contro l’imperialismo. Come ci si può contraddire così sonoramente a distanza di due righe? Tralasciando, anche qui, la storia secondo Moreno; è chiaro cosa il morenismo prenda dalla rivoluzione permanente e come la rifili. Della teoria di Trotsky rimane un indeterminato movimento. O avanti o indietro. O si procede o si arretra. Il che sarebbe anche giusto. Peccato che Moreno non sappia distinguere l’avanti dall’indietro.

Stando a quanto abbiamo visto, Moreno ha detto che se siamo di fronte a un partito che vuole difendere i contadini e la nazione, che dichiara guerra all’imperialismo, che – dirà più avanti – rifiuti il debito estero (la Germania nazista annullò il debito estero; addirittura nazionalizzò le imprese, ma sotto il controllo borghese mentre aboliva tutti i diritti degli operai), ma che rifiuti di avere a che fare con la classe operaia e sia dichiaratamente piccolo-borghese, questo partito va sostenuto, ed entusiasticamente, perché questo partito farà la rivoluzione, prima democratica, poi inevitabilmente socialista. Anche se abbiamo praticamente il ritratto del perfetto partito fascista. No, nessun rischio di fascismo per Moreno: se urti contro gli interessi dell’imperialismo, urti contro gli interessi del capitalismo: sei già in nuce un socialista. Moreno avrebbe perso le bave dietro al Terzo Reich, che aveva addirittura chiamato il suo partito Partito Nazionalsocialista Tedesco dei Lavoratori. Sì, indubbiamente. Perché, indubbiamente, non esiste per Moreno la possibilità che una borghesia nazionale in crisi recida i contatti che le nuocciono con le borghesie estere onde concentrare capitale, ritrovare la forza con bottini di guerra da non spartire con nessuno e debiti pubblici bruciati al Vittoriano, e poi tentare il colpo di mano sullo scenario mondiale. Indubbiamente. Bisogna appoggiare questi partiti. Che poi diventano fascisti, però. E come sono diventati fascisti? E che fare quando diventano fascisti? Quando diventano fascisti, quando rimangono fascisti, bisogna tripudiare all’arrivo degli alleati perché “nonostante tutto, assunsero anch’essi un ruolo progressivo giacché la disfatta di Hitler fu il più colossale trionfo rivoluzionario della storia dell’umanità” (“Le rivoluzioni del XX secolo”, 1984). Ed ecco tutto.

Il punto è nel movimento: bisogna muoversi, muoversi! Se non ci si muove, ci si arresta e si arretra. Se non avanza la rivoluzione – che per il morenismo è la sola cosa che può avanzare ove emergano attriti – avanza la controrivoluzione. Poi, appena il dominio dei nordamericani e delle borghesie patrie riscoperchia le crisi e risorge il fascismo, “appoggiamo” di nuovo il fascismo. Il senso ritrovato per Moreno della rivoluzione permanente. Non è dialettica, è epilessia.
Sbattersi perennemente da un fronte reazionario all’altro; fronti che non potranno mai avere, checché ne abbia detto lui, una soluzione senza un partito operaio perché, nel tal caso, saremmo degli schematici, dei pantofolai o dei menscevichi. Noialtri.
È innegabile, a onor del vero, che un suo carattere di permanenza questa linea lo abbia. È sulla “rivoluzione” che non concordiamo troppo. Si chiamasse “reazione permanente”, concorderemmo in pieno.

È sul solco di queste belle prescrizioni che la LIT-CI si rapporta alle vicissitudini politiche mondiali.
Sbagliandola tre volte su cinque.
Di passata: al crollo del Muro di Berlino, la LIT-CI era più festante di Reagan. Il solo motivo per cui alla caduta del Muro un comunista rivoluzionario poteva gioire sarebbe stato un movimento comunista delle masse della DDR e orientali in genere che avessero spodestato la burocrazia e avessero recuperato, sotto le parole d’ordine bolsceviche, la linea internazionalista. E/oppure un tale movimento anticapitalista dal versante occidentale che avesse ripreso a internazionalizzare la marcia per il socialismo, aiutando i compagni ostaggi di socialismo deforme a far saltare le poltrone della casta stalinista e portando quella rivoluzione europea che Lenin aspettava.
Ma non c’è stato nulla di nulla, di meno che nulla, di ciò. Addirittura, l’esatto opposto: ben capendo cosa si celava dietro un’operazione del genere, che fu tutta burocratica e amministrativa in fila col resto (ma il resto era odiato dai morenisti, questo improvvisamente no, era una “rivoluzione”), che fu tutta concertativa col capitalismo cui aveva definitivamente deciso di svendersi, il popolo sovietico al referendum di facciata indetto sulla conservazione dell’URSS nel 1991 votò favorevole all’80%. Mentre i morenisti parlavano di rivoluzione democratica trionfante, si assisteva alla sua dissoluzione per ordine burocratico. “Muoversi, se no ci si arresta!”. Il jingle portafortuna della LIT.

Un altro dei casi scandalosi con cui il morenismo ha dimostrato dove portino le venefiche premesse della sua impostazione, un evento ormai centrale nella storia del confronto tra trotskisti, che ha conosciuto il culmine in un epocale botta e risposta tra Partito Comunista dei Lavoratori e Partito d’Alternativa Comunista, sezione italiana della LIT-CI: la partecipazione dei morenisti al movimento di Piazza Maidan a Kiev che era sì per la cacciata del governo di Yanukovich, ma da chi era egemonizzato? Dai fascisti. I fascisti ucraini, cioè i nazisti. Piazze di nazisti, e c’erano in mezzo i “trotskisti” della LIT ad “accompagnare lo sviluppo rivoluzionario” ucraino.
È come se domani Casapound e Forza Nuova si dessero appuntamento per dimostrare contro Salvini-Di Maio-Conte non intenzionati a nazionalizzare le banche italiane e rompere con UE e BCE, e… siccome questi sono obiettivi che anche un comunista (quisquilie se da un versante di classe o meno) si pone, andiamo tutti con CPI e FN! E chi rimbrotta è un “pantofolaio”! “Pantofolaio”, apostrofò Francesco Ricci il Partito Comunista dei Lavoratori obiettando che, a ragionare a suo modo, i bolscevichi non avrebbero dovuto fare la “rivoluzione di… febbraio”, ecco qua! Perché si è in un corso “rivoluzionario” comune (senza segno progressivo o regressivo di sorta alle varie aspirazioni di parte, questo non è possibile: c’è la pendenza, la macchina si muove, chiunque diriga ci si deve muovere, se no è controrivoluzione!) e inizialmente le piazze possono anche essere riempite da nazisti, non vuol dire nulla. Il malcontento dei nazisti è, in quel momento, il malcontento dei trotskisti. Così avrebbero fatto i bolscevichi nella rivoluzione di febbraio.
Le celeberrime marce comuni tra bolscevichi e centoneri. Chi non le ricorda?

Tra gli ultimi casi che fanno urlare vendetta al cielo, non si può passare sotto silenzio la linea della LIT in Venezuela, emblematicissima anch’essa. In Venezuela, dopo il golpe progressista di Chavez, il governo passa a Maduro. Il chavismo, bolivarismo o quintinternazionalismo (che pretende di rifondare l’Internazionale su basi bolivariste) è un regime semisocialista e semicapitalista. È stata statalizzata qualche impresa, ma la borghesia continua a esistere e a parassitare. Il bonapartismo militare al comando del paese ha istituito e si sforza faticosamente di mantenere una situazione di arbitrato tra le classi, che non regge e crea scontento da ambo le parti. In Venezuela non ha completamente vinto il proletariato, ma nemmeno completamente vinto la borghesia. La borghesia però, che il governo non si sogna di annientare portando a termine il loading di socialistizzazione, è viva, vegeta e più incarognita che mai, considerato il bottino requisitole. Alle ultime elezioni questa borghesia, che ha il maggior partito nella MUD (Mesa de la Unidad Democrática) con l’aiuto degli USA ha avviato una vera e propria guerra civile contro Maduro. Contro il bolivarismo, il movimento trotskista internazionale in genere la pensa allo stesso modo. Va destituito e sostituito con il comunismo, quello vero, quello che solo può porre fine alla crisi in una prospettiva internazionale. Ma un conto è combattere Maduro dal versante rivoluzionario, un altro è combatterlo da quello reazionario. Purtroppo abbiamo già visto che per il morenismo non sussiste differenza. Maduro vieta, con la forza, il referendum revocatorio indetto dalle destre al grido di “Via Maduro!”, e cosa fa il partito di Unidad Socialista de los Trabajadores, sezione venezuelana della LIT in accordo con la LIT intera? Si accoda alle proteste di destra contro “Maduro il dittatore”. Anche se in quel caso la dittatura di Maduro serve a salvaguardare quel po’ di “socialismo” che s’è fatto in Venezuela. Quella misura violenta di Maduro è pienamente condivisibile per un rivoluzionario. Maduro va criticato dal versante comunista, non dal versante liberale. Con le rivendicazioni delle destre, con le campagne delle destre e le recriminazioni delle destre, un progressista e un comunista non deve avere nulla a che fare. La nostra lotta contro Maduro è un’altra, viene da un’altra parte, si raccoglie sotto altre bandiere, condivide altre parole. E invece anche qui: muoversi per muoversi, scomparsa di segni progressivi o reazionari, perdita della bussola dialettica, e di nuovo i morenisti si ritrovano con la destra.

In conclusione.
Quello che la discola scuola di Moreno disse di Trotsky – “Noi non partecipiamo di una Chiesa che ha una Bibbia che si chiama “Teoria della rivoluzione permanente”, scritta da Trotsky nel 1927 come la Bibbia scritta cento o centocinquant’anni dopo Cristo. Noi non abbiamo, e ne siamo felici, una Bibbia. Nessun documento definitivo se non i documenti scientifici che cambiano con la realtà e col nuovo studio della realtà” – sarebbe bene che i morenisti lo rivolgessero a se stessi. Capendo che il morenismo ha fallito e continua a fallire. E ha fallato e continua a fallare. E nel caso della LIT in particolare, la responsabilità non è scaricabile sull’arretratezza oggettiva delle masse dovuta al tradimento dei partiti di sinistra fino ad oggi nel mondo. Nel caso della LIT in particolare, la sua propria crisi sta nella incapacità di interpretare progressivamente la realtà. Incapacità che si annida nelle fondamenta dell’impostazione teorica generale del fondatore di questa internazionale degenere. Il problema della LIT è il morenismo. Può esistere una LIT senza morenismo? Tutto può esistere, se davvero – come predicava Moreno, pur intendendo il contrario – si torna dialettici. Se i sinceri rivoluzionari militanti delle sezioni della LIT lotteranno contro il morenismo e contro i loro dirigenti per riaccendere la lucerna rivoluzionaria alla testa di questo coordinamento, sarà un altro considerevole aiuto alla rianimazione del movimento operaio internazionale, ridotto al lumicino.
Altrimenti si condannerà non all’inutilità ma peggio, a trovarsi staffetta delle reazioni di ogni dove nell’illusione di inseguire una rivoluzione che ha totalmente disimparato a riconoscere e ad aiutare.

Salvo Lo Galbo

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