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Uno stato per due popoli, ma questo stato non può essere Israele

Giovedi 31 Luglio si è tenuto a Pisa un incontro sulla questione palestinese dal titolo: Ha ancora senso parlare di due stati per due popoli? (qui). I relatori erano As’ad Ghanem (professore di scienze politiche all’università di Haifa) e Giulia Daniele (assegnista di ricerca presso la Scuola Superiore Sant’Anna, che in quest’occasione presentava un nuovo libro dal titolo emblematico Germi di non violenza in acque agitate). E’ interessante notare come la cosiddetta scuola d’eccellenza Sant’Anna da un lato finanzi pubblicazioni sul tema della non violenza e del pacifismo e dall’altro sia legata a doppio filo all’industria e alla ricerca militare italiana, non solo in termini di produzione e sviluppo di armamenti, ma anche di strategie politico-militari e formazione di personale politico. Come se questo non bastasse, l’Università Sant’anna (così come la Statale di Pisa e la “Normale”) ha rapporti di stretta collaborazione con le università di Tel Aviv, Haifa e Gerusalemme che, oltre a discriminare gli studenti palestinesi, spesso operano direttamente nei territori occupati. Questo atteggiamento è solo apparentemente contraddittorio, poiché in realtà serve a destoricizzare e a decontestualizzare il conflitto in una sua rappresentazione ecumenica in cui l’unico agente negativo è la violenza, proposta come una categoria astratta, in cui i morti ci sono da entrambi i lati, e i due popoli sono avvolti in una spirale distruttiva che potrebbe essere disinnescata solo rimuovendo la violenza stessa. Esempio concreto di questa destoricizzazione è che i due relatori non hanno mai pronunciato la parola sionismo, che implica rimuovere totalmente il progetto imperialista israeliano e i rapporti e gli interessi che questo ha con l’Unione Europea e gli Stati Uniti. Inoltre la rimozione del reale progetto politico israeliano serve anche a togliere terreno e legittimità alla resistenza armata palestinese.
In merito al dibattito che ha avuto luogo e più in generale a quello che la tragedia che da quasi settant’anni sta vivendo la Palestina sotto l’aggressione israeliana e che la cronaca dell’ultimo attacco a Gaza sta riportando in prima pagina, ci sentiamo di fare alcune puntualizzazioni.
In primo luogo ci preme sottolineare come sia un segno molto positivo che la truffa dei “due stati per due popoli” cominci a perdere consenso anche nell’area della sinistra riformista.
Per quanto ci riguarda la cosiddetta soluzione di due stati per due popoli non ha mai avuto senso. E’ una mistificazione sotto ogni punto di vista, una pura astrazione che ignora la realtà fisica e politica in gioco in Palestina, rimuove la obliquità del rapporto tra un popolo colonizzatore e uno oppresso o, peggio ancora, la giustifica. E’ inoltre una pseudosoluzione che si concluderebbe con una doppia oppressione del popolo palestinese: da un lato i cittadini palestinesi all’interno dei confini di Israele vivrebbero in una condizione di apartheid, di cittadinanza di serie B, con minori diritti sociali, politici e civili, dall’altro i cittadini palestinesi del cosiddetto stato palestinese, vivrebbero in un territorio senza confini, un arcipelago di zolle di terra circondate dall’esercito israeliano e dai checkpoint, senza confinare con niente che non sia Israele, in quella che sarebbe una vera e propria prigione a cielo aperto.
Come è possibile dunque che alcune frange palestinesi possano ancora chiedere la soluzione dei due stati?
E’ necessario ribadire un punto tanto ovvio quanto rimosso. Il popolo palestinese, come quello israeliano, è diviso in classi sociali. Questa, che sembra la scoperta dell’acqua calda, è invece la pietra angolare per capire tutte le contraddizioni che stanno all’interno delle rivendicazioni dei due stati, sia per capire quelli che sono i tentativi di mistificazione della soluzione ad uno stato.
Una parte della borghesia palestinese è disposta ad accettare, persino umiliando se stessa, la soluzione dei due stati con i confini attuali, pur di avere un terreno da amministrare e un potere da esercitare. Questo le garantirebbe anche un minimo potere contrattuale con Israele, ad esempio esercitando repressione verso chiunque esprima dissenso o proponga soluzioni alternative alla risoluzione del conflitto, o faccia propaganda antisionista, in modo da avere un trattamento di favore e vivere, ancora come un recluso, ma in una prigione dorata.
Israele dal canto suo non ha una reale intenzione di riconoscere la possibilità di uno stato palestinese, se non nella forma provocatoria di stato fantoccio disarmato e sempre nella posizione strategica a lungo termine (ma nemmeno troppo) dell’annessione totale dei territori della Palestina storica all’interno del progetto sionista della Grande Israele. La miseria della borghesia palestinese si misura tutta nelle sue continue aperture a questa opzione.
La soluzione dei due stati dunque si rivela in tutta la sua falsità.
La soluzione alternativa, quella di un solo stato per due popoli, presenta molte e variegate sfumature di declinazione che, se pur possono apparire diverse solo in minuzie e facezie, si rivelano come completamente inconciliabili se osservate con l’ottica di un’analisi marxista.
Durante il dibattito dell’iniziativa da cui abbiamo preso spunto per questo intervento, è emersa implicitamente una di queste declinazioni.
Il ragionamento che vi soggiace è del tutto di economia logica: la soluzione migliore è uno stato per due popoli, e a conti fatti oggi uno stato esiste già ed è Israele. La lotta centrale dunque dovrebbe diventare la lotta per la rivendicazione dei diritti dei palestinesi con cittadinanza israeliana (una minoranza oppressa che rappresenta circa il 20% della popolazione israeliana), al fine di sradicare quelle che sono le principali cause di discriminazione tra ebrei e non ebrei nel territorio di Israele. A quel punto si potrebbero benissimo integrare tutti i territori palestinesi all’interno di una Israele democratizzata.
Questa proposta soffre di numerose lacune ed ingenuità. Vediamole nel dettaglio.
Innanzitutto la proposta ha una forte carenza ed un significativo rimosso. La carenza è che manca del tutto un’analisi di classe. Non si fatica a credere che una proposta del genere abbia consenso nella borghesia intellettuale e accademica dei palestinesi con cittadinanza israeliana, perché è una soluzione che permetterebbe ad una élite palestinese di ritagliarsi uno spazio di privilegio nella società israeliana.
Il rimosso è il sionismo. Non si può affrontare una qualunque discussione su Israele senza avere chiara la natura sionista dello stato ebraico. Ed alla sua natura sionista sono legate molte altre mancanze di questo tipo di proposta. Per esempio come sarebbe gestita in questa prospettiva la questione dell’esercito di difesa israeliano? Sarebbe aperto anche ai palestinesi? Difficile crederlo. E ancora, come gestire l’elezione di un governo? Come legittimare i partiti politici? Siamo sicuri che il Fronte Popolare di Liberazione della Palestina o Hamas sarebbero ben accolti nel panorama elettorale di una Israele democratizzata? E l’élite israeliana accetterebbe una laicizzazione dello stato Israeliano? Impossibile. La soluzione più plausibile sarebbe dunque una sorta di federazione, con legge ebraica su territorio israeliano e amministrazione palestinese nei territori degli attuali confini. A ben vedere, questa soluzione rischia semplicemente di spostare dentro i confini di uno stato di Israele che a quel punto comprenderebbe tutta la Palestina storica, tutta l’oppressione, l’apartheid e la ghettizzazione di cui il sionismo è capace. Inoltre questa pretesa democratizzazione di Israele riduce la sua natura sionista alla legislazione diapartheid, rimuovendo il fatto che questo stato si fonda sull’espulsione di un popolo dalla sua terra, la nakba, e sul divieto del diritto al ritorno imposto a milioni di profughi palestinesi.
Una spirale senza fine di contraddizioni insanabili.
Per quale motivo allora questo tipo di proposta viene avanzata da settori palestinesi?
Il motivo è almeno duplice. Da un lato, come già detto, la borghesia palestinese cerca di costruirsi la legittimità per avere uno spazio di galleggiamento nei rapporti di forza con Israele, ma dall’altro c’è la volontà di depotenziare la parola d’ordine dello stato per due popoli. Questa volontà delle varie espressioni delle leadership palestinesi, siano Hamas, che l’ANP, che Fatah dipende dalla loro consapevolezza che hanno tutto da perdere dall’apertura di un vero percorso rivoluzionario in Palestina, non possono che rimetterci la loro egemonia e i loro privilegi.
E’ importante dunque ribadire un concetto cruciale. Lo stato che ospiti ebrei, palestinesi e ogni altra etnia presente in Palestina nel rispetto delle reciproche diversità e diritti, non può in nessun caso essere Israele. Ma non basta. La costruzione di uno stato laico, socialista, unito della Palestina non può che passare dalla distruzione dello stato sionista d’Israele.
La dissoluzione per via rivoluzionaria dello stato coloniale israeliano è l’unica strada realistica, per quanto impervia e difficoltosa.
Non esiste nessuna democratizzazione possibile di Israele, né alcuna sua “de-sionistizzazione” graduale.
Una sollevazione intera del popolo palestinese, nei territori occupati e dentro Israele, una sollevazione del mondo arabo contro il sionismo, favorire le contraddizioni all’interno della classe operaia israeliana, in modo da spingere alla maturazione di un sentimento antisionista tra le classi subalterne dello stato ebraico in modo da legare la lotta del proletariato israeliano con la causa palestinese, sono queste le parole d’ordine che il marxismo rivoluzionario deve agitare all’interno della battaglia per la liberazione della palestina e sono queste le sole possibili armi che abbiamo a disposizione contro il sionismo e il sistema oppressivo israeliano che ripropone, strabordante dai suoi confini etnico-religiosi, la questione mai rimossa della contraddizione di classe, dell’alternativa storica fondamentale che oppone socialismo e barbarie.

N. Senada
Clelia Mazzei

PCL Pisa

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