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Togliatti contro Orwell, ovvero Facebook e le stanze 101

di Volodia

All’indomani della pubblicazione del romanzo “1984” di George Orwell, su «Rinascita» (a. VI, nn. 11-12, Novembre-Dicembre 1950) compare una stroncatura a firma di Roderigo di Castiglia, alias Palmiro Togliatti.

Nella recensione dall’evocativo titolo “Hanno perso la speranza”, il “Migliore” accusa l’opera di Orwell di essere una freccia all’arco sgangherato della cultura borghese, capitalistica e anticomunista. Scrive Togliatti:

La tesi è che non è possibile creare e mantenere la uguaglianza, perché, fatti i primi passi in questa direzione, si ricostituisce un gruppo dirigente e questo, non volendo abbandonare il potere, mantiene la grande massa degli uomini lontana dalla ricchezza. Se non facesse così, i suoi privilegi, – asserisce l’Orwell, – andrebbero perduti. Il potere, poi, per essere mantenuto, richiede la organizzazione gerarchica di un ceto dirigente, ed in questa organizzazione gerarchica quegli uomini che ne fanno parte perdono ogni personalità, libertà, dignità, sono sottomessi alla volontà tirannica di un capo o di un gruppo di capi supremi, che li riducono a essere semplici strumenti passivi e inconsapevoli di qualsiasi abiezione.

In tutta la recensione, Togliatti critica Orwell per aver affermato cose che stavano puntualmente avvenendo nella perversione stalinista dell’ideale sovietico.

Orwell aveva colto in pieno i meccanismi di uno stato totalitario che, lungi dal realizzare l’ideale del potere proletario tramite i soviet, aveva instaurato quell’oligarchia pseudo-comunista che ha la bandiera del comunismo e ha reso molto problematico recuperare il filo del discorso di Marx e dei marxisti per gli anni a venire; il contributo personale di Togliatti in questo crimine, non a caso, fu di prima grandezza.

Purtroppo la storia e i fatti confermeranno quello che Togliatti rimprovera a Orwell di aver denunciato. Scrive ancora il Migliore:

…nel «partito» vi sono continue epurazioni, persecuzioni, soppressioni; si sopprimono, anzi, tutti coloro che han contribuito a far la rivoluzione e se ne ricordano, e regna il terrore davanti ai dirigenti, potenti ma sconosciuti. Nel «partito» si insegna a commettere, per il «partito», le azioni più stolte, a mentire, a negare la evidenza dei fatti, ad affermare che due più due fanno cinque e non quattro, e così via, fino a che dell’uomo intelligente non resta più nulla. Il capo del «partito», infine, ha i baffi neri, e il suo nemico mortale la barbetta a punta.

E chi sarà questo nemico dalla barbetta a punta, Emmanuel Goldstein? La figura di Trotsky, trasformata da Orwell richiamandone il vero cognome (Bronštejn), per Togliatti ha l’effetto di un santino davanti a un indemoniato, è la cartina al tornasole che mette in evidenza la natura dello stalinismo.

E allora, dopo aver tentato senza successo di demolire il merito letterario dell’opera di Orwell, a Togliatti non resta altro che rivoltare la frittata: chi non è con noi è contro di noi. Dato che noi siamo IL comunismo, gli altri sono automaticamente servi della borghesia, agenti del fascismo. Poco importa che Orwell avesse scritto

«Il mio recente romanzo [1984] NON è inteso come un attacco al Socialismo o al Partito Laburista (di cui sono sostenitore), ma come la denuncia delle perversioni … che sono state parzialmente realizzate nel Comunismo e nel Fascismo. »

La critica alla società totalitarista di Stalin diventa la critica al comunismo intero. La critica alla repressione del dissenso diventa collaborazionismo con l’oppressore borghese.

Orwell, che pure partecipò alla guerra civile spagnola al fianco delle milizie comuniste del POUM, finì col cadere nell’equivoco, alimentato dagli stalinisti e ovviamente da tutti il campo borghese, che il comunismo corrispondesse alla situazione politica dell’URSS e del Patto di Varsavia, quando tutto ciò era molto lontano da ciò di cui parlavano Marx, Lenin e gli altri autentici comunisti. Non a caso, Orwell prese una posizione di sostegno organico al partito laburista, dichiarandosi socialdemocratico.

Doveva aver davvero una grande esperienza di bastonature e torture, questo poliziotto coloniale, per giungere a porre la fiducia nelle torture e nelle bastonature più in alto che la fiducia nella ragione umana. Questa è la sola parola che seriamente e alla fine esce dal suo libro. Bisogna picchiare gli uomini, per espellere dal cuore e dalla mente loro la passione per la libertà, la giustizia, l’eguaglianza; la passione per la generosa utopia. Picchiateli, torturateli, riduceteli un mucchio d’ossa e di carni sanguinolente; allora sarete sicuri di mantenere su di essi all’infinito il vostro potere.

Con una disonestà intellettuale estrema, Togliatti mette in bocca a Orwell il contrario esatto di ciò che dice nel libro, facendo finta di non capire il senso dell’opera e imputando all’autore ciò che Stalin ha messo realmente in atto. Togliatti definisce Orwell un “poliziotto coloniale” (Orwell ha effettivamente fatto parte della polizia coloniale in Birmania, prima di dimettersi disgustato dall’imperialismo britannico), senza però ricordare che questo “sbirro” si è preso una pallottola alla gola in Spagna lottando con il POUM, lo stesso POUM su cui sparava Togliatti per ordine di Stalin, in preparazione al patto Patto Molotov-Ribbentrop.

Come spesso succede, le critiche a caldo a opere che poi diventeranno capolavori indiscussi a posteriori suonano molto ridicole. E datate. Orwell ci ha regalato una grande opera d’arte, un romanzo-strumento, perfetto per capire le dinamiche dello stalinismo, ma anche degli odierni meccanismi del capitalismo. L’autore infatti non si limitava a comunismo e fascismo: anche il capitalismo è caratterizzato dalle “perversioni” alienanti descritte da Orwell. È grazie a questo romanzo che sappiamo cosa sono il Grande Fratello, la psicopolizia, la repressione dell’espressione sessuale e sentimentale da parte del capitale, la manipolazione della memoria e dei fatti.

Ma cosa c’entra Facebook in tutto questo? Ancora la vecchia equazione Facebook = Grande Fratello? Esatto. Perché sarebbe stato veramente interessante leggere un commento di Orwell sulla recente notizia sull’enorme ricerca svolta dal più importante dei social network su circa 689.000 persone.

Manipolando i contenuti dei newsfeed di un campione di ignari utenti è stato dimostrato che togliendo dai post le parole positive, quindi veicolando contenuti marcatamente negativi, gli utenti tendevano anch’essi a replicare post e produrre contenuti di stampo negativo. Essere esposti a emozioni negative, ci rende tristi, arrabbiati, frustrati.

La scoperta dell’acqua calda. Ovviamente il nocciolo della ricerca non era dimostrare che l’esposizione a emozioni negative ci deprime, il punto era testare la capacità di Facebook di influenzare lo stato d’animo dei propri utenti, semplicemente omettendo o evidenziando dei contenuti e soprattutto rivendicare la libertà di farlo.

Al momento dell’iscrizione al social network si sottoscrive un disclaimer, con cui abdichiamo a tutto ciò che produciamo (testi, foto ecc.), a tutte le informazioni che pubblichiamo e con cui accettiamo di fare da cavie senza neanche essere interpellati. Facebook non è gratuito, l’oggetto del profitto sono le informazioni, i ricordi, le esperienze degli utenti. Già Gramsci aveva intuito che il più grande potere del capitalismo non è la repressione, ma la sua capacità di modellare l’immaginario collettivo, di indurre a ritenere immutabili certe categorie o rapporti di potere.

Il guaio è che non è la prima volta che Facebook smette di occuparsi della realtà virtuale per mettere le mani direttamente nella “realtà reale”.

Nel 2010 è stato eseguito un altro esperimento, sempre tenendo gli utenti nella più totale oscurità.

L’oggetto questa volta era l’efficacia di un banner che invitava a iscriversi e a votare alle elezioni negli Stati Uniti. Alcuni utenti ricevevano inviti per andare a votare, con tanto di foto di amici che l’avevano fatto, altri non ricevevano nulla, o ricevevano inviti generici.

Ovviamente le percentuali di votanti si sono rivelate maggiori nel gruppo di utenti che avevano visto l’invito a votare.

C’è da chiedersi quali siano stati invece i gruppi di utenti NON invitati a votare, i sottoproletari del Bronx? Erano scelti in modo casuale o in base alle preferenze politiche? Si calcola che questo piccolo esperimento di Facebook abbia mobilitato 60.000 voti diretti (340.000 considerando l’effetto passaparola).

C’è di che rabbrividire se si pensa alle elezioni in cui Bush è stato rieletto con 537 voti in Florida. Ovviamente il colosso social non fornisce alcuna informazione al riguardo, ma possiede un patrimonio inestimabile, fatto di informazioni, preferenze sessuali, musicali, politiche, religiose, ricordi, segreti e vicende di 1,25 miliardi di utenti, un potere che nessun media aveva mai avuto finora, e nella più totale discrezione e impunità.

Come e peggio della psicopolizia orwelliana, Facebook conosce tutte le nostre stanze 101. Orwell non parlava di un mondo distopico, di un babau minaccioso e irreale. Orwell ci parlava del nostro mondo, del mondo capitalista, di come sta diventando e di come può diventare. Un passo alla volta, anche nel piccolo di una città di provincia: A quando una telecamera ad ogni angolo?

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