LA BATTAGLIA DEL MARXISMO RIVOLUZIONARIO DAL 1848 AL 1923

PARTE 1 : Marx ed Engels: il rigore della demarcazione teorica; strategica, programmatica dentro la coerenza della battaglia politica internazionale

(2002)

di Marco Ferrando

Intanto per quanto riguarda la prima parte, quella che ha un riferimento più preciso, più diretto all’esperienza di Marx ed Engels c’è un punto che va premesso e che credo che sia importante anche al fine di sfatare un luogo comune. Un luogo comune molto diffuso, in definitiva, che ha lasciato tracce anche negli ambienti più impensabili è quello per cui Marx e Engels sono stati fondamentalmente due grandi pensatori, i due filosofi del marxismo, o i due critici brillanti dell’economia borghese, che avrebbero individuato un progetto generale, un programma a maglie larghe del comunismo che è il Manifesto del ’48; dopo di che si sarebbero sviluppate nella storia reale le varie scuole politiche, le varie tendenze interpretative di quel testo, quelle rivoluzionarie e quelle riformiste, e così ognuno al buffet della storia può scegliere la sua. interpretazione preferita, per usare una celebre espressione di Rosa Luxemburg. A prescindere da ogni altra considerazione c’è un piede di partenza totalmente falso di questo luogo comune. Marx e Engels hanno costruito un’esperienza politica internazionale che è durata decenni complessivamente. E tutta la loro produzione teorica, strettamente intrecciata con la storia del movimento operaio europeo non è stata una dilettazione intellettuale, ma si è sviluppata in funzione di questa costruzione politico-organizzativa. Del resto, del tutto conformemente alle premesse teoriche del suo pensiero, Marx scriveva nell’ultima tesi su Feuerbach: “Finora i filosofi hanno interpretato il mondo, il nostro compito è quello di trasformarlo”. La filosofia della prassi, per citare Gramsci, è un elemento connotativo del marxismo rivoluzionario e quindi connotativo anche della pratica politica di Marx e Engels nel corso della loro vita.

La costanza storica della battaglia per l’egemonia

Com’è del tutto evidente la battaglia di egemonia politico-programmatico-teorica di Marx e di Engels all’interno del movimento operaio è stata tutt’altro che lineare. Se si percorre anche solo la cronologia e la successione delle esperienze politico-organizzative di Marx e di Engels, si ha l’idea di questa dinamica sussultoria: la Lega dei Comunisti fu fondata nel 1847-48, la I Internazionale fu fondata nel 1864, la l Internazionale verrà fondata nel 1889. Tra queste esperienze politico-organizzative tutte internazionali (perché sempre internazionale è stato il lavoro di Marx e di Engels) non c’è un filo di continuità rettilinea. C’è un processo storico convulso: la Lega dei Comunisti fu sciolta fondamentalmente nel 1852-53 dopo il processo di Colonia ai comunisti tedeschi. Seguì un lungo periodo di arretramento del movimento operaio e anche di arretramento delle posizioni del marxismo rivoluzionario fino alla costituzione della I Internazionale. Quest’ultima registrò tale arretramento, e infatti si costituì inizialmente su basi politiche e programmatiche per alcuni aspetti meno chiare e più contraddittorie di quelle che segnavano la Lega dei Comunisti e il Manifesto del 1848, ma lì in quell’ambito più largo riprese controcorrente una battaglia di egemonia strategica e programmatica di Marx e di Engels per riaffermare le loro posizioni generali. La I Internazionale ebbe una vita di nove anni: si sciolse di fatto dopo l’esperienza della Comune parigina attorno al 1872-73. Segui un nuovo periodo di arretramento, ma anche una nuova battaglia politica per ricomporre un quadro più avanzato dell’egemonia marxista-rivoluzionaria sul movimento operaio. Come si vede in questa dinamica molte posizioni politico-organizzative sono state conquistate, poi sono state perse, poi riconquistare, poi riperse e poi riconquistate ancora. La battaglia del marxismo-rivoluzionario è sempre stata una battaglia estremamente tormentata anche per i più grandi dirigenti e fondatori del. marxismo-rivoluzionario. Ma se c’è un punto costante che ha accompagnato questa battaglia di Marx e di Engels nel corso della loro storia è la lotta per l’egemonia delle proprie posizioni e quindi, in definitiva, un elemento forte di demarcazione teorica, strategica e programmatica delle proprie posizioni rispetto ad altre posizioni, concezioni, ideologie anche socialiste o socialisteggianti, ma che non avevano nulla di scientifico ed erano anzi un elemento di ostacolo alla maturazione della prospettiva rivoluzionaria del movimento operaio.

La demarcazione originaria del marxismo

Questo ostinato principio di demarcazione teorica, caratterizza la stessa origine politica e teorica del marxismo-rivoluzionario. Il marxismo-rivoluzionario, filosoficamente parlando, viene da una demarcazione rispetto alla sinistra hegeliana, economicamente parlando da una demarcazione rispetto alla tradizione della teoria economica classica, politicamente parlando da una autonomizzazione e una rottura con la tradizione del radicalismo democratico. Il Manifesto del Partito Comunista del 1848 è un testo di netta demarcazione. Naturalmente in questo testo Marx ed Engels scrivono che il marxismo non ha principi “settari”, cui il movimento operaio si dovrebbe conformare; dichiarano che il movimento proletario marxista deve essere disponibile all’unità d’azione con altri partiti proletari; sempre nel Manifesto c’è il riferimento all’esperienza del cartismo inglese, come c’è il riferimento all’esperienza del partito agrario americano, c’è l’affermazione che i marxisti sostengono qualsiasi moto rivoluzionano contro l’ordine esistente: ma tutto questo nel quadro di una demarcazione molto netta del proprio profilo. E infatti

  1. Marx ed Engels esprimono una demarcazione e una rottura molto netta rispetto alla tradizione del cosiddetto socialismo utopistico premarxista di Fourier, Owen e Saint Simon, pensatori socialisti non scientifici, che avevano fantasticato sulla futura società comunista, ma non avevano individuato un soggetto sociale di riferimento, non avevano individuato nel movimento reale della lotta di classe la leva della trasformazione, e non avevano una strategia e un programma di trasformazione rivoluzionaria della realtà.
  2. Come i compagni ricorderanno, tutta la parte conclusiva del Manifesto rappresenta una demarcazione e una contrapposizione rispetto alle varie scuole, tendenze, ideologie socialiste o socialisteggianti che molto spesso erano espressione, per dirla con Marx, dell’influenza e delle pressioni di altre classi. C’è il paragrafo di denuncia del cosiddetto socialismo feudale, c’è il paragrafo di denuncia del cosiddetto socialismo piccoloborghese, c’è il paragrafo di denuncia del cosiddetto socialismo tedesco o vero socialismo, c’è il paragrafo di denuncia del cosiddetto socialismo borghese, che tra l’altro, a differenza di tutti i riferimenti alle tendenze socialiste o socialisteggianti precedentemente indicati, che sono storicamente superati e datati, è di una attualità straordinaria perfino nei termini formali in cui Marx lo individua e lo denuncia.

Una parte della borghesia -si legge- desidera di portar rimedio ai mali della società per assicurare l’esistenza della società borghese. Questo socialismo ha cercato di distogliere la classe operaia da ogni moto rivoluzionario dimostrando che ciò che le può giovare non è questo o quel cambiamento politico ma soltanto un cambiamento delle condizioni materiali di vita e dei rapporti economici. Questo socialismo però non intende menomamente per cambiamento delle condizioni materiali di vita l’abolizione dei rapporti di produzione borghese, che può conseguire soltanto per via rivoluzionaria, ma dei miglioramenti amministrativi realizzati sul terreno di questi rapporti di produzione, i quali perciò non cambiano affatto il rapporto tra capitale e lavoro salariato, ma nel migliore dei casi diminuiscono alla borghesia le spese del suo dominio e semplifichino l’assetto della sua finanza statale”.

Direi che, più o meno negli stessi termini, potrebbe essere una citazione da usare nella nostra battaglia antiriformista all’interno di Rifondazione Comunista[1], per fare un’esemplificazione.

La continuità della battaglia di “raggruppamento rivoluzionario”: dalla Lega dei comunisti alla critica del programma di Gotha

Al tempo stesso questo elemento di demarcazione teorica originaria, questo atto fondativo (un conto è il socialismo scientifico, un conto gli altri socialismi ideologici, a maggior ragione il socialismo borghese) non fu semplicemente un atto originario depositato li, dopo di che le idee avrebbero viaggiato tranquillamente per conto loro. Al contrario questo patrimonio strategico e programmatico continuò ad essere terreno di demarcazione, di battaglia politica anche all’interno del movimento operaio indipendente e anche all’interno delle espressioni politiche organizzate del marxismo-rivoluzionario, in cui Marx e Engels

investivano la propria opera, la propria battaglia. E se seguiamo appunto, a grandissime linee, la vicenda della Lega dei Comunisti del ’47-’48, della I Internazionale a partire dal ’64, e poi tutto il percorso che va dallo scioglimento della I Internazionale fino alla Il, vediamo che in qualsiasi ambito politico e organizzato Marx ed Engels fecero una battaglia rigorosa di demarcazione teorica, strategica e programmatica. La Lega dei Comunisti nacque attorno al Manifesto, ma non è che a quel punto la battaglia politica fosse chiusa: al contrario, all’interno della Lega dei Comunisti, che pur si era costruita appunto sulle basi avanzatissime di quel testo, Marx ed Engels continuarono a sviluppare una battaglia teorica, strategica, programmatica per consolidare quella posizione di partenza, e lo fecero contro diverse tendenze e posizioni di socialismo cristiano, di socialismo sentimentale, di “islam comunistico” per usare un’espressione che Engels usa nella sua ricostruzione della vicenda storica della Lega dei Comunisti (un pamphlet brevissimo ma interessantissimo e molto formativo rispetto alle origini del movimento marxista). Così come portarono avanti una battaglia assai dura per esempio rispetto al partito e al movimento cartista per cercare di separare la corrente riformista del cartismo inglese, quella che faceva riferimento alla cosiddetta tendenza della “Forza morale”, dall’ala rivoluzionaria di quel movimento, che faceva riferimento alla cosiddetta tendenza (l’espressione è significativa) della “Forza fisica”. Cercarono di scinderle, di separarle, raggruppando e ricomponendo l’area più radicale attorno a un asse rivoluzionario in contrapposizione alle posizioni riformiste. Lo stesso accadde in relazione all’esperienza della I Internazionale. Marx in una lettera a Bolte del 1871 così riassumerà in termini di bilancio retrospettivo l’esperienza della I Internazionale:

L’Internazionale venne fondata per porre in luogo delle sette socialiste o semisocialiste la vera organizzazione della classe operaia per la lotta e la storia dell’Internazionale è stata una lotta continua del Consiglio Generale, della Struttura dirigente dell’Internazionale medesima contro le sette, gli esperimenti dilettanteschi che cercavano di prevalere sul movimento reale della classe operaia all’interno stesso dell’Internazionale”.

E anzi il grosso della battaglia programmatico-strategica di Marx e di Engels si svolse soprattutto nella I Internazionale, perché la I Internazionale a differenza della Lega dei Comunisti si era costituita su basi relativamente larghe (in quanto registrava l’arretramento precedente del movimento operaio dopo la sconfitta e lo scioglimento della Lega) e in questa I Internazionale entrarono così le più diverse famiglie, a volte del socialismo o addirittura della democrazia piccolo-borghese rivoluzionaria: dalle trade unions inglesi fino a Mazzini, tant’è vero che Marx parlerà anche lì in sede di bilancio di una sorta di “accordo ingenuo fra tutte le frazioni, partiti etc.” Ma quanto più era largo l’ambito della battaglia dei marxisti rivoluzionari (l’ampiezza di tale ambito era in qualche modo imposta dall’arretramento precedente del movimento operaio e dalla necessità di rimettere in moto un processo) tanto più ostinata era la battaglia di Marx e di Engels per riconquistare, riconsolidare l’egemonia delle posizioni marxiste rivoluzionarie sul movimento operaio. E infatti, come dice lo stesso Marx, tutta la vita della I Internazionale è stata una vita di lotte interne. E’ stata innanzitutto la lotta contro i proudhoniani, seguaci di colui che, per semplificare, fu uno dei padri teorici (anche se eterodosso) dell’anarchismo europeo, con posizioni molto distinte da quelle di Bakunin, e che in buona sostanza teorizzava lo sviluppo delle cooperative come via di accesso a una società alternativa (precorrendo le attuali teorie sul terzo settore) ed escludeva nel modo più totale il tema della politica, della lotta di classe e della conquista del potere. Secondo terreno di battaglia fu la polemica contro Lassalle. Lassalle aveva avuto un grande merito in Germania ed era stato quello di porre le fondamenta del movimento operaio indipendente separandolo dal radicalismo democratico tedesco. Ma al tempo stesso era progressivamente scivolato su posizioni riformiste nazionali fuori da un’ottica di costruzione internazionale del movimento operaio e aveva progressivamente maturato anche delle posizioni obiettivamente equivoche nei confronti di Bismarck e della monarchia prussiana, con cui era stato tentato di addivenire a compromessi opportunistici. Lo scontro con Lassalle e il lassallismo sarà per Marx un terreno centrale di battaglia per l’egemonia nella I Internazionale. Terzo terreno di battaglia interna fu la lotta contro Bakunin, che entrò nella I Internazionale nel 1868 con una frazione organizzata che si chiamava ‘Alleanza per la democrazia socialista” e ci entrò esattamente per prendere la testa dell’Internazionale, e per affermarvi una posizione politica che non aveva niente a che vedere col

marxismo, secondo la quale il soggetto centrale per la trasformazione della società non era la classe operaia ma il brigante (salvo poi, in seguito alla sua cattura da parte della polizia russa, rivolgersi allo zar dal carcere, nelle sue Confessioni, presentandosi fondamentalmente come un bravo ragazzo con cui, a differenza che con Marx, con Engels e con altri terribili rivoluzionari, era possibile al limite trovare una qualche forma di accordo). La lotta contro il bakunismo, che Marx e Engels condussero fino alla fine, portò, dopo l’esperienza della Comune di Parigi, allo scioglimento di fatto dell’Internazionale. Marx e Engels sapevano che la lotta contro il bakunismo sino all’espulsione di quest’ultimo dall’Internazionale, ne avrebbe in qualche modo comportato, per dinamiche sue proprie, lo scioglimento. Ma era questa una condizione decisiva per evitare che l’Internazionale fosse conquistata da posizioni politiche e programmi che avrebbero segnato una retrocessione storica rispetto alle posizioni che il marxismo rivoluzionario aveva conquistato. E a quelli che dicevano “Ma come facciamo a dividere l’Internazionale, a rischiare di determinarne lo scioglimento?”, a quelli che sollecitavano in qualche modo “l’unità e l’unificazione di tutti all’interno dell’Internazionale”, così Engels rispondeva:

Non ci si deve lasciar trarre in errore dagli strilli per l’unificazione. Coloro che più hanno in bocca questa parola sono i più grandi seminatori di discordia, come proprio in questo momento i bakunisti svizzeri iniziatori di tutte le scissioni, che non fanno altro che gridare all’unione. Questi fanatici dell’unificazione o sono delle intelligenze limitare che vorrebbero mescolare tutto in una pappa indeterminata, che basterebbe lasciar posare perché le differenze si riproducessero con contrasti ancor più vivaci, oppure sono delle persone che incoscientemente o coscientemente vogliono falsificare il movimento, per ciò i peggior settari e più grandi attaccabrighe canaglie sono in certi momenti quelli che reclamano con più alti strilli l’unificazione. Nella nostra vita (si riferisce a lui e Marx. N.d.A.) nessuno ci ha mai dato più fastidi, nessuno ci ha mai teso più insidie che i rumorosi predicatori dell’unificazione. Naturalmente ogni direzione di partito vuol vedere dei successi e ciò è anche molto bene, ma vi sono delle circostanze in cui bisogna avere il coraggio di sacrificare il successo momentaneo a cose più importanti, specialmente per un partito come il nostro con il suo programma e con i suoi principi”.

Questa battaglia di demarcazione teorica strategica nettissima fu portata avanti da Marx e da Engels anche nel processo di costruzione della II Internazionale dopo lo scioglimento della Prima. E qui vi fu un passaggio, che dà il senso del metodo e del rigore dei principi di Marx e di Engels: quando in Germania, attorno al.1875, dopo una lunga diaspora, le due principali organizzazioni socialiste del movimento operaio indissero un congresso di unificazione attorno ad un programma comune, l’organizzazione di tradizione lassalliana da un lato e l’organizzazione che faceva riferimento ad Eisenach (Più tradizionalmente vicino alle posizioni di Marx e di Engels) dall’altro. Naturalmente gli operai di avanguardia in Germania salutarono molto positivamente questa unificazione. Il piccolo particolare era che questa unificazione fra lassaliani e Eisenach avveniva attorno ad un programma, il cosiddetto Programma di Gotha che segnava una retrocessione verticale di posizioni politiche strategiche già acquisite in particolare da parte del partito di Eisenach: un programma ibrido senza principi, che, per mettere d’accordo la tradizione lassalliana e quella coerentemente marxista faceva, come dice Marx, “traffico dei principi”, Marx e Engels presero la penna e scrissero:

Dopo il Congresso di unificazione Engels e io pubblicheremo una breve dichiarazione in cui affermeremo che non condividiamo i principi del suddetto programma e che non abbiamo niente a che fare con esso. Ciò è assolutamente necessario, è un programma che secondo la nostra convinzione deve essere assolutamente respinto e che demoralizza il partito. Ogni passo di movimento reale è più importante di una dozzina di programmi. Se non si poteva andare oltre il programma di Eisenach, si sarebbe dovuto semplicemente concludere un accordo per l’azione contro il nemico comune, ma se si fanno dei programmi di principio invece di rinviarli sino al momento in cui un programma sia stato preparato, da una più lunga attività comune delle due organizzazioni, si elevano al cospetto di tutto il mondo le pietre miliari dalle quali si giudica il livello del movimento di partito. Si sa che il semplice fatto dell’unificazione appaga gli operai, ma si sbaglia pensando che questo successo momentaneo non sia stato comprato a un prezzo troppo caro”.

Il paradosso di questa citazione è che solitamente i riformisti, a partire da Fausto Bertinotti, ne

estrapolano solo una frase, quella che dice “ogni passo di movimento reale è più importante di una dozzina di programmi” per dire che per Marx e Engels i programmi erano sostanzialmente irrilevanti. Il piccolo particolare è che tutto il contesto dell’argomentazione dice non solo una cosa diversa ma la cosa esattamente opposta.

La lotta di Marx per l’indipendenza di classe

Ora si tratta di capire, fermo restando questo principio e questa linea di demarcazione generale, quali sono stati i contenuti strategici portanti della battaglia di Marx e di Engels per l’egemonia nei diversi raggruppamenti organizzati in cui hanno operato e nelle diverse fasi storiche. Anche qui, andando ovviamente per massima approssimazione, vorrei toccare tre punti che mi paiono centrali. Tre terreni: il terreno dell’indipendenza politica del movimento operaio, il terreno e il tema delle rivendicazioni transitorie (chiamiamolo così con un linguaggio che non era ancora proprio di Marx ma che in nuce già si trovava in Marx) e, terzo, il tema dello Stato e quindi della dittatura proletaria. Primo aspetto: indipendenza politica del movimento operaio. Tutto quanto abbiamo detto sin ora è in relazione a questo principio cardine. Quando Marx ed Engels portano avanti la lotta per demarcare teoricamente il marxismo rispetto alle altre tendenze, non fanno semplicemente una battaglia teorica o filosofica fine a se stessa. Cercano di costruire nella classe operaia e innanzitutto nell’avanguardia della classe operaia il senso della propria indipendenza politica nei confronti delle altre classi. Questo è stato un punto centrale di tutta l’opera di Marx e Engels: il rifiuto della collaborazione di classe, il rifiuto della partecipazione dei marxisti, dei comunisti, a governi borghesi “democratici, progressisti, riformatori” che dir si voglia. E’ una posizione cardine in qualche modo implicitamente già affermata nel Manifesto del Partito Comunista, perché quando si dice che alla base della storia c’è la lotta di classe, è evidente che in questo principio c’è già il rifiuto della collaborazione delle classi (Trotsky osservò giustamente in un testo di commentario storico del novantesimo del Manifesto che già esso rappresenta la ripulsa anticipata di tutta la predicazione collaborazionista della socialdemocrazia e dello stalinismo dell’epoca dei fronti popolari). Ma, al di là di questo, è nell’esperienza politica e storica del movimento operaio del suo tempo che Marx affermò e sviluppò questo principio. Ci sono due scritti di Marx poco conosciuti in realtà (e non a caso) che sono centrali da questo punto di vista: uno è Le lotte di classe in Francia dal 1848 al 1850 e l’altro l’Indirizzo alla Lega dei Comunisti del 1850. Nel primo testo Marx si riferisce all’esperienza della rivoluzione in Francia nel febbraio-giugno 1848. Cosa era successo? In due parole era successo che una grande rivoluzione popolare aveva rovesciato la monarchia degli Orléans. In questa rivoluzione popolare la classe operaia aveva avuto un ruolo molto importante, ma il governo che si formò a febbraio a ridosso di questa rivoluzione subiva un’egemonia sostanzialmente borghese. All’interno di questo governo sedevano i rappresentanti di tutte le classi, e in particolare i rappresentanti dell’ala riformista del movimento operaio francese: Blanc e Albert. Questa esperienza si rivelerà un disastro. La borghesia farà una serie di concessioni riformatrici alla pressione rivoluzionaria del movimento operaio, ma in realtà lavorerà dietro le quinte per ribaltare i rapporti di forza e creare le condizioni per annullare tutte queste conquiste. E i rappresentanti del movimento operaio all’interno del governo saranno semplicemente coloro che copriranno, in veste di ostaggi, questa operazione controrivoluzionaria. Marx bollò con parole di fuoco l’esperienza governista di Blanc e Albert. Blanc aveva accettato in buona sostanza, attraverso la cosiddetta “commissione Lussemburgo”, il Ministero del lavoro. E Marx scrisse:

Accanto ai ministeri delle Finanze, del Commercio e dei Lavori pubblici, accanto alla Banca e alla Borsa, sorse una sinagoga socialista cui i sommi sacerdoti Louis Blanc e Albert avevano la missione di scoprire la terra promessa, di annunciare il nuovo vangelo, ma in realtà di intrattenere il proletariato parigino. A differenza di ogni profano potere statale non era a loro disposizione nessun bilancio, nessun potere esecutivo. Con le loro teste si dovevano abbattere i pilastri fondamentali della società borghese. Gli operai avevano fatto insieme alla borghesia la Rivoluzione di Febbraio, accanto alla borghesia cercavano di far valere i loro interessi. Allo stesso modo che nel governo provvisorio stesso avevano installato un operaio accanto alla maggioranza borghese. Organizzazione del lavoro: ma il lavoro salariato è l’attuale organizzazione borghese del lavoro, senza di esso non vi è capitale né società borghese. Un proprio

Ministero del Lavoro, ma i ministeri delle Finanze, del Commercio,dei Lavori pubblici non sono i ministeri borghesi del lavoro?Accanto ad essi un ministero proletario del Lavoro, non poteva non essere un ministero dell’impotenza, un ministero dei pii desideri”.

Badate che questa posizione era una posizione assunta nei confronti di un governo riformatore che, per intenderci, aveva datò le dieci ore ai lavoratori parigini, oltre che conquiste democratiche fondamentali (dal suffragio universale alla repubblica); un governo che era il sottoprodotto di un grande rivolgimento di massa. Ciò nonostante la parola d’ordine, il principio, era star fuori da quel governo borghese, opporsi ad esso e denunciare i rappresentanti del movimento operaio che ne facevano parte. L’altro testo, l’ Indirizzo alla Lega del 1850 è un testo se possibile ancora meno conosciuto de Le lotte di Classe in Francia, ma ancor più significativo. Più significativo perché in esso paradossalmente (spiegherò poi il senso del paradosso) Marx partiva da una posizione che si è rivelata sbagliata. Nel 1850 Marx non aveva ancora razionalizzato il fatto che la rivoluzione del ’48 era rifluita. E pensava, sbagliando, che si fosse, in particolare in Germania, alla vigilia di una nuova rivoluzione popolare di massa, dove, a suo avviso, sarebbe stata non più la borghesia liberale, che aveva già tradito il ’48 tedesco, ma la piccola borghesia democratica, il partito piccolo-borghese democratico, la forza egemone, di governo. Ebbene egli scrisse l’Indirizzo alla Lega per mettere in guardia gli operai dal farsi abbindolare dal futuro probabile governo democratico piccolo-borghese:

Il primo problema è quello di mantenere l’autonomia e l’opposizione verso questo governo, il secondo problema è di utilizzare quest’autonomia e quest’indipendenza rivoluzionaria dal governo piccolo- borghese democratico riformatore per far avanzare dentro le sue contraddizioni una prospettiva di rivoluzione proletaria, di rivoluzione socialista”.

Cito queste espressioni perché mi sembrano molto interessanti anche per altre angolazioni del nostro dibattito:

Mentre i piccolo-borghesi democratici vogliono portare al più presto possibile la rivoluzione alla conclusione e realizzando tutt’al più le rivendicazioni di cui sopra (rivendicazioni riformiste) è nostro interesse e nostro compito rendere permanente la rivoluzione sino a che tutte le classi più o meno possidenti non siano scacciate dal potere, sino a che il proletariato non abbia conquistato il potere dello Stato, sino a che l’associazione dei proletari non solo in un paese ma in tutti i paesi dominanti del mondo si sia sviluppata al punto che venga meno la concorrenza tra i proletari di questi paesi e sino a che almeno le forze produttive decisive non siano concentrate nelle mani dei proletari non può trattarsi per noi di una trasformazione della proprietà privata ma della sua distruzione, non del mitigamento dei contrasti di classe ma dell’abolizione delle classi, non del miglioramento della società attuale ma della fondazione di una nuova società”.

Il che significa appunto che l’indipendenza politica della classe operaia non era una pura demarcazione ma era condizione decisiva per la prospettiva di una rivoluzione proletaria e che questa rivoluzione proletaria veniva concepita come rivoluzione in permanenza nel quadro di un processo rivoluzionano internazionale.

La tematica “transitoria” del programma in Marx

Il secondo terreno di battaglia politica e strategica generale è il terreno cosiddetto della tematica transitoria. Ho detto. che in Marx non c’è uno sviluppo compiuto della tematica transitoria, che verrà elaborata in termini compiuti in particolare dal partito bolscevico, dalla III Internazionale e poi dall’Opposizione trotskysta e dalla IV Internazionale, ma nelle sue opere vi sono in nuce tutte le premesse di quella futura elaborazione. Spesso anche i pochi che si occupano del lavoro politico di Marx in relazione alla classe operaia e al movimento operaio reale sottolineano solo un aspetto, che è reale ma molto limitato: l’impegno di Marx e della I Internazionale, come già della Lega dei comunisti, nelle battaglie immediate del movimento operaio dell’epoca. Certo Marx ebbe un ruolo importante da questo punto di vista; polemizzò già nel suo testo Miseria della filosofia (1846) con Proudhon, polemizzò contro gli economisti che volevano demolire il concetto di battaglia per il salario: tutta l’argomentazione di Marx

dice quanto fosse importante la battaglia per il salario. Così la battaglia di Marx e di Engels sulla questione della riduzione dell’orario di lavoro internazionale in Europa e nel mondo fece epoca nell’800: e fu un pezzo decisivo dell’impegno di Marx e di Engels contro la tradizione delle sette, cioè di quelle organizzazioni propagandistiche frutto di un approccio astratto, parasocialiste e sostanzialmente premarxiste, che si concepivano a latere del movimento reale delle masse, mentre Marx diceva che bisognava sviluppare tale movimento e che questo sviluppo si costruisce a partire anche da obiettivi di carattere immediato. Ma c’è l’altra faccia della medaglia:se ci fu una posizione che non solo Marx non sostenne mai, ma che Marx combatte sempre fu quella per cui il socialismo poteva essere in qualche modo il punto d’approdo di una graduale espansione di conquiste immediate, di riforme sociali e democratiche strappate magari con dure lotte da parte dei lavoratori e da parte delle organizzazioni dei lavoratori. Prendiamo ad esempio tutto il quadro dei rapporti tra Marx e le trade unions inglesi. Marx incoraggiò lo sviluppo delle trade unions inglesi perché vide nel loro sviluppo un passo avanti del movimento operaio inglese; ma, detto questo, tutta la sua battaglia si sviluppò contro la loro impostazione minimalistica, sindacalistica, economicistica. Marx affermò che la battaglia per il salario era estremamente importante, come anche quella per la riduzione dell’orario di lavoro, ma che non bisognava farsi illusioni: ogni conquista che veniva strappata, in qualche modo, poi, una volta mutato il rapporto di forza, veniva “rimangiata” dalle classi dominanti, dalla società borghese. Ciò significava che non era importante la lotta per le conquiste immediate? Al contrario, ma quella lotta era importante non tanto in relazione alle conquiste immediate in sé, ma perché quello era il terreno più favorevole su cui si poteva sviluppare l’organizzazione indipendente della classe operaia e quindi la coscienza della necessità di una rottura rivoluzionaria con la classe dominante e della conquista del potere politico. Questo concetto è assolutamente centrale in Marx. E in questo quadro è centrale ancora una volta quello che Marx scrisse in relazione al rapporto fra i comunisti e l’ipotetico governo democratico piccolo-borghese tedesco. Marx previde che il governo democratico piccolo-borghese tedesco in quella rivoluzione (che poi non si realizzò, ma qui interessa l’aspetto di metodo) avrebbe offerto ai lavoratori molte riforme, molte concessioni. Per Marx il problema era quello di riuscire a sviluppare, in relazione a queste riforme e a queste concessioni, e a partire da una totale indipendenza politica nei confronti del governo, il movimento rivoluzionario anticapitalistico della classe operaia. Qual è nostro compito -si chiede – una volta che si costituirà questo governo?

I lavoratori devono spingere all’estremo le misure proposte dai democratici, che ad ogni modo non si presenteranno come rivoluzionari ma solo come riformatori, e trasformarli in attacchi diretti alla proprietà privata, così ad esempio quando i piccolo-borghesi proporranno di acquistare le ferrovie e le fabbriche gli operai dovranno reclamare che tali ferrovie e fabbriche siano confiscate dallo Stato puramente e semplicemente senza risarcimento come proprietà dei reazionari. Se i democratici proporranno l’imposta proporzionale, gli operai proporranno l’imposta progressiva, Se i democratici proporranno essi stessi l’imposta progressiva moderata i lavoratori insisteranno per l’imposta così rapidamente progressiva che il grande capitale ne sia rovinato. Se i democratici reclameranno che si regolino i debiti dello Stato i proletari reclameranno che lo Stato faccia bancarotta. Le richieste degli operai dovranno sempre regolarsi sulle concessioni e sulle misure dei democratici. Sebbene gli operai tedeschi non possano giungere al potere e soddisfare i loro interessi di classe senza attraversare un lungo sviluppo rivoluzionario, essi hanno però questa volta per lo meno la coscienza che il primo atto dell’incombente dramma rivoluzionario coinciderà con la vittoria diretta della loro classe in Francia e perciò il processo sarà affrettato, ma essi debbono fare l’essenziale per la loro vittoria finale chiarendo a se stessi i loro propri interessi di classe, assumendo il più presto possibile una posizione indipendente di partito e non lasciando che le frasi ipocrite dei piccoli borghesi democratici li sviino nemmeno per un istante dall’organizzazione indipendente del partito del proletariato. Il loro grido di battaglia deve essere la rivoluzione in permanenza”.

Interessante è proprio l’approccio programmatico, perché la linea di Marx non è quella di dire “gli operai otterranno da questo governo riformatore una posizione più avanzata e poi in una tappa successiva vedremo”; il problema di Marx è costruire una proposta rivendicativa di carattere transitorio che faccia da ponte tra lo stato delle masse, le concessioni loro eventualmente elargite da un governo “democratico” e

la necessità decisiva della conquista del potere. Insomma il fine rivoluzionario nell’impostazione del programma è sempre stato centrale in Marx.

La dittatura del proletariato

Il terzo punto, il terzo contenuto caratterizzante della battaglia per l’egemonia, riguarda appunto la questione del fine rivoluzionario. Anche qui è stata usata spesso a sproposito una citazione (in particolare dal gruppo dirigente di Rifondazione, che ne ha fatto anche un’effigie più o meno sistematicamente sulle tessere di partito), la famosa frase tratta dal Marx dell’Ideologia tedesca del 1846, secondo cui il comunismo non è un modello astratto a cui il mondo si deve conformare, ma il “movimento reale che abolisce lo stato di cose presenti”. Qual è il significato reale di questo concetto (non a caso espresso in un testo in cui Marx spiega la sua concezione materialistica della storia)? È la polemica nei confronti delle sette dottrinarie essenzialmente premarxiste che pensavano di poter calzare le proprie brache intellettuali al mondo, a partire da una concezione idealistica dello sviluppo storico. E’ chiaro che con queste concezioni e questo comunismo così inteso, Marx non aveva niente a che vedere. Il comunismo è “un movimento reale” -dice Marx – nel senso che è inscritto nella lotta di classe, quella che le sette rifiutavano. Ma questo non ha appunto niente a che vedere con una supposta irrilevanza del programma e del fine rivoluzionari, perché anzi questo movimento reale della classe operaia può giungere alla trasformazione rivoluzionaria proprio e soltanto se incontra un progetto cosciente, un programma, un quadro di principi, una direzione politica, come diremmo noi oggi. Tutta l’opera teorica e politica di Marx e di Engels è esattamente concentrata su questo punto. Sul quadro generale delle posizioni programmatiche in relazione ai fini (credo che fra noi vi sia una larga informazione quindi non entro nei dettagli e non dico cose scontate) un punto volevo sottolinearlo, perché anche questo è stato oggetto di mille mistificazioni dirette e indirette, non solo nel Prc ma in tutta la lunga vicenda del movimento operaio e riguarda la questione dello Stato. Molto spesso si dice che in Marx c’è un’elaborazione compiuta su tante questioni, ma sulla questione dello Stato vi sarebbe un’elaborazione incompiuta per cui alcuni fallimenti e degenerazioni burocratiche del ‘900 sarebbero attribuibili anche a questo “peccato originario” del marxismo. In realtà (a prescindere dal carattere tutto idealistico di questa impostazione) questa tesi dell’assenza di una compiuta teoria di Marx sullo questione dello Stato è totalmente infondata sia dal punto di vista teorico che dal punto di vista politico. Dal punto di vista teorico chiunque conosca le principali opere di Marx e di Engels sulla concezione materialistica della storia, dall’Ideologia tedesca all’Origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato, o all’AntiDuhring sa quanto sia importante in Marx l’analisi delle origini storiche e la demistificazione del feticismo dello Stato (tra l’altro vorrei ricordare il piccolo particolare che il primo momento di rottura di Marx con l’hegelismo riguarda la filosofia del diritto, là dove per Hegel lo Stato era l’oggettivazione dello Spirito nella Storia e quindi la concretizzazione di una ragione trascendente, per Marx invece era l’espressione della classe storicamente dominante). Ma è dal punto di vista politico che è centrale la concezione marxiana dello Stato, dal punto di vista cioè della concezione della prospettiva del potere politico e della lotta per il potere politico. E’ vero che su questo terreno abbiamo un’evoluzione storica della posizioni di Marx. Non credo che dobbiamo sostenere la posizione di alcune correnti “invariantiste” del bordighismo secondo cui nel Marx del 1844-48 c’era già tutto Marx, il profeta che ha operato ed elaborato al di fuori della storia. Nel percorso storico indubbiamente Marx sviluppò nel concreto la sua concezione del potere politico e della dittatura proletaria, ma lo fece a partire dalle sue basi. E direi che tre sono le fasi fondamentali di questa elaborazione. Innanzitutto nel Manifesto del Partito Comunista c’è chiaramente il concetto centrale della conquista del potere politico da parte del proletariato, con un’espressione molto significativa: “Il proletariato ha il compito di organizzarsi in classe dominante, esercitare la sua supremazia politica attraverso il potere conquistato e sviluppare interventi dispotici (questa l’espressione di Marx. N.d.A.) nei confronti della proprietà e del diritto borghese di proprietà.” Non c’è la dizione formale della dittatura del proletariato, ma è del tutto evidente che il concetto già nel 1848 è quello. Un secondo passaggio è quello del 1848-50, che fu sospinto dall’osservazione dell’esperienza storica, in particolare della Francia dei primi decenni dell’800. In Francia vi era stato un continuo susseguirsi di rivoluzioni e controrivoluzioni e una

continua modifica dell’organizzazione dello Stato: dall’assolutismo prerivoluzionario al giacobinismo poi, dal Termidoro al primo Napoleone, dalla restaurazione dei Borboni alla monarchia degli Orléans, dalla Repubblica nata dal febbraio del ’48 al Secondo Impero: un concentrato di osservazione storica inestimabile dal punto di vista dell’analisi dello Stato e della sua evoluzione. In tutto questo tumultuoso svilupparsi delle organizzazioni statali quale fu, secondo Marx, la costante, la direzione di marcia, che segnò, pur in modo sussultorio, la linea generale di tendenza? Il rafforzamento della burocrazia dello Stato e il rafforzamento dell’esercito permanente. Burocrazia statale ed esercito permanente vennero individuati da Marx (quali che siano le diverse forme di organizzazione dello Stato) come il baricentro dello Stato borghese, e già nel 1848-50 egli sottolineava la necessità che il movimento operaio concentrasse tutte le sue forze per la distruzione dello Stato borghese, intesa come dissoluzione, innanzitutto, della burocrazia e dell’esercito permanente. Non a caso nel 1848-50 Marx usò per la prima volta esplicitamente il termine “dittatura del proletariato”, al punto da individuarla in una nota lettera a Weidmayer del 1852 come l’essenza stessa del comunismo:

Mi hanno detto che io ho scoperto la lotta tra le classi, ma per carità l’avevano già scoperta i liberali, io ho scoperto la dittatura del proletariato, la prospettiva rivoluzionaria vincente per la classe oppressa e le masse oppresse come leva del superamento e dell’abolizione delle classi”.

Ma è soprattutto nella terza fase, con l’esperienza della Comune parigina del 1871 che si completò l’elaborazione marxiana della teoria della dittatura proletaria. Che cosa era accaduto è noto: nel 1871 gli operai parigini avevano conquistato il potere con una magnifica insurrezione sullo sfondo di una guerra, la guerra franco-prussiana; era nata la Comune, un’assemblea di consiglieri municipali eletti a suffragio universale e permanentemente revocabili, unita a un quadro di funzionari permanentemente eleggibili e revocabili da parte della loro base elettiva, pagati con un salario medio da operaio e quindi allo smantellamento di tutti privilegi tradizionali della vecchia burocrazia. La Comune aveva unificato funzioni legislative ed esecutive: era quindi un parlamento e al tempo stesso uno strumento di lavoro. Quest’esperienza si svilupperà sotto la direzione dei blanquisti e dei proudhoniani, in modo tragico. Molto spesso si dice che siano stati i “marxisti” alla testa della Comune, invece alla testa della Comune c’erano i blanquisti (che ereditavano una lunga tradizione babuvista -da Babeuf- radicata nel rivoluzionarismo borghese francese) e i proudhoniani (di cui ho parlato precedentemente) che con la loro impostazione contribuirono obiettivamente alla sconfitta. C’è un testo bellissimo di Trotsky del 1920 che, traendo un bilancio della Comune, afferma che essa fu sconfitta proprio perché mancava il partito, la direzione politica cosciente, etc. Ma al di là della sconfitta, Marx trasse da questa esperienza una lezione fondamentale, di importanza storica universale. Essa dimostrò che gli operai possono conquistare il potere politico ma solo sostituendolo con un proprio potere, che dissolva burocrazia ed esercito permanente, pieghi e sconfigga la resistenza delle classi spodestate, cominci in qualche modo a estinguersi e a dissolversi nell’ambito della società. In altri termini da allora la Comune di Parigi fu assunta da Marx e da Engels come l’esemplificazione della prospettiva della dittatura del proletariato. Ed Engels dirà, rispondendo alla domanda “Che cos’è per voi la dittatura del proletariato?”: “La dittatura del proletariato è la Comune”. Faccio questo riferimento per dire di passata che nessuna posizione, nessuna interpretazione della dittatura proletaria poteva essere più lontana da Marx che quella che concepisse la dittatura proletaria come dittatura di una burocrazia privilegiata separata dalle masse. Tutta l’elaborazione del marxismo rivoluzionario da questo punto di vista va in direzione esattamente opposta.

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