Libertà d’espressione e opposizione politica oggi

2di Giacomo Turci

Battersi con la prospettiva dell’unica società libera, il comunismo, fa sì che il gioco valga la candela e che ogni passo in avanti del movimento reale sia un passo in più verso un obiettivo chiaro, storicamente necessario, comprensibile e condivisibile dalle più vaste masse di sfruttati e oppressi. L’alternativa è tra uno sterile lamento basato sulla confusa concezione di una “democrazia pura”, e un’agenda indipendente di mobilitazione politica, sui NOSTRI temi (caro vita, disoccupazione, sfruttamento, guerre, ecc.). Battersi con una prospettiva e una strategia rivoluzionarie rende possibile continuare e sviluppare la lotta superando ogni illusione verso la democrazia borghese, ogni vittimismo e ogni feticismo della contestazione.

Ora che le acque si sono calmate ed è passato il quarto d’ora mediatico dedicato alle ultime contestazioni bolognesi a Matteo Salvini, è forse possibile fare qualche considerazione politica utile ai compagni del movimento operaio e di quello studentesco; un movimento, quest’ultimo, di cui faccio parte così come i compagni autori dell’articolo “Il feticcio della libertà d’espressione”. Mi permetto dunque, in risposta a tale articolo, qualche riflessione.

Gli autori commettono un errore (assolutamente in buona fede, immagino, volendo portare il lettore nel preciso campo politico di loro interesse) quando fanno risalire la genesi del concetto di libertà di espressione “in Italia” alla resistenza del 1943-5 (contraddicendosi, ricordando poi giustamente origini borghesi ben più antiche del concetto). Prendendo per buono il fatto che il concetto politico di “italianità” fosse già diffuso diversi secoli fa (cosa sia poi l’Italia, non si può trattarlo qui), la battaglia, degli strati e delle classi sociali (ri)emergenti in Italia dal basso medioevo in poi per affrancarsi dallo strapotere economico, politico, culturale che le opprimeva (sostanzialmente, quello della Chiesa, dell’Impero, delle potenze straniere), costituì fin da subito uno scontro politico per la libertà d’espressione, cioè per la libertà d’opinione e critica fuoricontro le potenze di cui sopra. Le dottrine moderne sulla libertà d’espressione sono storicamente nate da quella lotta, dall’affermarsi sull’arena economica e politica di strati sociali nuovi (o riemersi in nuove forme) contrapposti alle classi dominanti feudali. Il consolidamento del potere di queste classi sociali in evoluzione non poteva che passare da una libertà di pensiero, di dibattito, di ricerca scientifica contrapposta alla piramide teologica che sanciva la sacralità dell’ordine politico feudale. Quella situazione di proprietari piccoli e medi in ascesa, sia in lotta fra di essi nel gioco dell’accumulazione, sia contrapposti ai grandi proprietari di terre, reclamava a gran voce la più forte difesa della libertà d’espressione universale, dove l’universale, guarda caso, non veniva esteso di buon grado agli sfruttati. Successivamente, l’epoca della grande concentrazione e centralizzazione dei capitali, l’epoca dei cartelli, dei trust e dei monopoli, ha preparato le condizioni per una dottrina politica della centralizzazione della libertà di pensiero: la formazione dell’opinione pubblica è affidata a pochi grandi organi di stampa e mediatici legati alle grandi fazioni della borghesia in competizione tra loro, se non a un solo grande trust politico culminante idealmente nel partito unico più o meno fascista.

La fine del secolo scorso ha visto saltare l’alternanza “classica” tra blocchi politici di centrodestra e centrosinistra (composti, questi ultimi, di solito da partiti di origine operaia assestati nel campo politico borghese) a seguito della fine dei decenni “d’oro” del secondo dopoguerra: avanzando fasi di crisi sempre più profonde e difficili da superare, la forbice delle possibili politiche di governo si è assottigliata: esempio lampante è il Labour Party di Tony Blair in prima fila nella crociata imperialistica contro il demone del terrorismo islamista. In questo senso, in termini giornalistici, non è infondato parlare dello stabilirsi di una grande destra diffusa (vedi “partito della nazione”) dove il campo politico social-riformista non ha modo e senso d’esistere.

Venendo a noi, ci troviamo in una fase di crisi acuta delle classi dominanti europee, impegnate a mantenere per quanto possibile un posto privilegiato (forse con un’UE più forte, forse no) in un mondo dove l’epoca dello strapotere incontrastato USA-NATO sta finendo, e dove la stabilizzazione di nuovi equilibri tra imperialismi e grandi blocchi capitalistici è lontana. In Italia, in particolare, assistiamo all’evoluzione storica della carta “centrosinistra” giocata da un blocco importante, competitivo e “illuminato” della borghesia: con Renzi si è passati a una fase di pesante attacco delle classi dominate e delle loro forme di organizzazione, sindacati in primis. Con un PD, riplasmato come partito borghese lanciato sulla scia del bonapartismo di Renzi, a fare da ariete. In questo quadro, altri settori della piccola e grande borghesia si affidano a un altro blocco, quello di Salvini e di altri reazionari; a una prospettiva politica diversa, anche se non certo alternativa, dato che nessuno dei partiti padronali vuole certo questionare o, dio ce ne scampi, abbattere il sistema capitalistico in cui ci troviamo.

Oggi, la battaglia per plasmare l’ideologia dominante si gioca quindi fra blocchi a noi estranei, a formazioni politiche supportate dalle classi dominanti e che vivono per esse, risultando noi loro nemici e esse nostre nemiche: questo concetto, mi pare, deve essere cristallino; non tanto tra i “compagni” ma, in prospettiva, ai lavoratori, a tutti gli sfruttati, alle classi dominate in toto.

La nostra situazione, dunque, vede un progetto di delegittimazione, indebolimento e, in prospettiva, demolizione di qualsiasi opposizione politica delle classi sfruttate: per compiere più comodamente il loro macello – sempre meno metaforico, visto lo scenario di armamento generali e di conflitti militari diffusi, anche a poca distanza dai confini italiani. Si capisce allora subito perché lo Stato non abbia alcun interesse a reprimere sistematicamente “l’opposizione” fascista o comunque apertamente reazionaria e più o meno sovversiva: essa è funzionalissima a quel lavoro sporco di istigazione alla guerra tra poveri e di aggressione (formale con le forze dell’ordine o informale con le squadracce) agli oppositori politici e agli sfruttati in lotta. In questo senso, se c’è un vero erede del situazionismo, quello è il senso comune “democratico” di oggi: fascisti e squadristi sono coloro che contestano “da sinistra” le politiche reazionarie della Grande Maggioranza parlamentare borghese. La libertà di parola e manifestazione viene rivendicata a gran voce, per esempio, dal M5S per i fascisti, quando una qualsiasi critica (anche pacata e circoscritta) ai capitalisti e ai loro partiti in quanto tali è irragionevole, squalificata, “ideologica”. Proprio perché, nelle epoche schiacciate verso la reazione, come la nostra, l’ideologia dominante è talmente consolidata e radicata da diventare “tecnica”, “buon senso”, “buon governo” e via destreggiando. Mentre la critica dell’ideologia dominante è ideologia, falsa coscienza, mala fede; chi critica la società capitalistica, faccio notare, è spesso etichettato come “figlio di papà”, a dimostrazione che in tante cose il fascismo non ha perso ma ha stravinto, riuscendo a ribaltare la realtà per cui chi difende la politica borghese dà del prezzolato borghesotto ai proletari in lotta e agli anticapitalisti. Preso atto di ciò, questi ultimi farebbero bene a non riporre la minima speranza in una difesa giuridico-costituzionale dai reazionari: viene da chiedersi, quale giustizia e quale antifascismo possono difendere una legge e una costituzione scritte col marchio di togliattiana infamia dell’amnistia dei fascisti e dell’emarginazione, della carcerazione e dell’internamento di svariati partigiani (comunisti perlopiù, ovviamente)?

Chiarito questo, sì, “chiunque può dire qualsiasi cosa”: a patto che si pieghi al potere delle élite dominanti, gli si riconosce la libertà di compiacente parola e il patentino di democratico. Proprio quel sudicio patentino noi dobbiamo strappare, più che degli inutili quanto ininfluenti libri firmati da Salvini. Chi, specie in questa fase reazionaria di riflusso e smobilitazione, intende porsi comeavanguardia politica (a proposito di ‘noi’ e identità politiche perdute nella nebbia) nel movimento operaio e studentesco, non può che avere come compito prioritario quello di ribadire, con chiarezza, costanza, inflessibilità, che la democrazia del tonfa, dei tagli, del razzismo, è la democrazia borghese; non c’è un’altra possibile, per noi, qui, oggi. Se questo è vero, più che la contestazione dei nemici (su cui si vince combattendo e non contestandoli), ci spetta un compito ben più ampio, faticoso, metodico, paziente, scientifico: la coltura, il perfezionamento e la diffusione di una coscienza di classe, rivoluzionaria, comunista, tra gli sfruttati, tra i lavoratori, tra gli studenti (tenendo conto della particolare posizione di questi ultimi nel complesso della divisione in classi della società); la ricostruzione di organismi di autorganizzazione di massa(ripeto: di massa, di massa, di massa!) degli studenti; la dialettica fra presa di coscienza, rafforzamento dell’organizzazione e dinamiche strutturali – perché molto non dipende da noi né dalle nostre coscienze, ma dall’evoluzione generale del conflitto di classe e delle sue conseguenze sullo Stato e sulla società civile. A proposito: le scelte di economia politica dello Stato e dei suoi addentellati non sono, appunto, disgrazie naturali o frutto di sadici piani di una plutocrazia nascosta (a proposito di fascismo): sono le conseguenza dell’evolversi della nostra società capitalistica in questa fase di incertezza fra la potente crisi del 2007-8 e un’altra crisi economica, forse ancora più forte e non molto lontana, che ci aspetta. È il capitalismo, bellezza: prendere o… abbattere. Proprio qui sta il punto: non c’è un’altra società, un’“altra Europa” se non una società che superi il capitalismo abbattendolo e rimuovendone sistematicamente le macerie. Da marxista, non posso che ripetere fino alla nausea più totale che tale società futura, e il movimento stesso che già ci sta portando a essa, sono il comunismo: la società che supera le classi sociali, la necessità di uno Stato, lo sfruttamento. La società dove l’espressione è libera perché liberi ed eguali sono i suoi membri. Battersi con questa prospettiva fa sì che il gioco valga la candela e che ogni passo in avanti del movimento reale sia un passo in più verso un obiettivo chiaro, storicamente necessario, comprensibile e condivisibile dalle più vaste masse di sfruttati e oppressi. L’alternativa è tra uno sterile lamento basato sulla confusa concezione di una “democrazia pura”, e un’agenda indipendente di mobilitazione politica, sui NOSTRI temi (caro vita, disoccupazione, sfruttamento, guerre, ecc.). Battersi con una prospettiva e una strategia rivoluzionarie rende possibile continuare e sviluppare la lotta superando ogni illusione verso la democrazia borghese, ogni vittimismo e ogni feticismo della contestazione.

 

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