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La Bigia – Una favola

di Maddalena Robin

L’erba non è alta, ma c’è. Basterà ancora per un mese di pascolo. Piove sempre meno e piove male. Un diluvio e poi niente per due mesi. I cavalli non pensano al futuro: scelgono i bocconcini migliori e calpestano il resto.
Proprio come noi. E come noi non solo in questo. Quando li vedo scorrazzare nelle recinzioni malfatte e cadenti che li trattengono penso a noi, agli uomini: basterebbe un calcio ben assestato, una spinta col petto, per abbattere ogni barriera. E noi come loro, davanti al primo filo, alla prima ridicola rete a quadri, ci fermiamo e torniamo indietro, illusi che lo spazio con-cessoci sia sufficiente.
Ma la Bigia è diversa, la vecchia pony montenegrina che non vuole morire, 32 anni mal portati, scheletrica, che però trova sempre un varco per comparire altrove, dove non potrebbe mai essere, ma c’è.
Lei non si è mai arresa. Sa tutto. Dislocazione del fieno, depositi di mangime, sacchi di pane dei cani, cibo dei polli, tutto. Non si stanca di cercare la sua personalissima pietra filosofale: la scatola delle zollette di zucchero. Noi tutti invece siamo come gli altri cavalli: bocconcini facili, zampate sul resto, e sempre nelle regole, nei recinti, negli steccati, per quanto sconnessi e fragili, per quanto, ahimè, ridicoli.
La Bigia è l’ultimo Bakunin rimasto: l’ultima fuorilegge che non ha rinunciato al sogno dell’anarchia, dove tutto si può. Non è un caso che la sua pelle sia segnata di cicatrici: quelle delle catene dell’aratro che ha tirato per anni, quelle dei morsi e dei calci degli altri cavalli che, più forti di lei, le contendevano un fico o un ciuffo d’erba, quelle dello staffile che la voleva democraticamente obbediente.
La Bigia morirà dopo aver faticato, dopo aver pagato ogni boccone con la sua generosità di cavallina, morirà dignitosa, forse sotto un fico o una roccia, forse sulla riva del fiume, ma morirà indomita, lei che ha fatto gioire centinaia di bambini con la sua docilità, perché nessuno le ha mai imposto il morso o la sella, io lo so: è sempre stata lei a darsi spontaneamente.
Poco fa era al ruscello, stava bevendo per ultima, come al solito. Il popolo dei giovani sauri la deride e la emargina, ma lei aspetta a bere, poi parte verso la libertà che essi ignorano: cerca il punto debole, il varco, e s’insinua.
I suoi scuri garretti di baio sono segnati da due anelli bianchi, dove si è scorticata correndo ugualmente anche se qualche padrone li aveva serrati con le cinghie incatenate per fermarla.
Vecchia carcassa ossuta e macilenta: è come una volpe che ancora ri-cordo, che morì di un boccone al veleno dopo troppe fughe dalle stu-pide trappole umane sempre aggirate. Sono loro gli ultimi segni di una libertà semplice e chiara, senza garanti o commissioni parlamentari, senza leggi e commi e regolamenti attuativi, senza pastoie o gabbie.
La ammiro perché la libertà è testardaggine e coerenza. È attesa del momento propizio. Mi piace quando osserva le mosse del padrone col nuovo sacco delle prelibatezze, aspettando che qualcosa lo distragga per strapparne velocissima un lembo con un morso e poi affondare il muso nella cascata d’avena che ha provocato. Anche i cani la temono: al suo arrivo si volatilizza ogni loro scorta di pane ed ho notato che non disdegna neanche i croccantini di pollo.
La ammiro e la invidio perché è strana, filosofa: gli altri cavalli scappano al solo vedere uno staffile alzato, lei valuta, calcola vantaggi e svantaggi di una percossa e se ne va, alla fine, sempre con la bocca piena, sempre con le idee chiare sui suoi obbiettivi.
Quando arrivò alla fattoria, otto anni fa, era ancora pimpante e prodiga, ma da subito misteriosa. Il padrone la chiudeva ogni sera nel suo box per ritrovarla il mattino seguente a spasso per la stalla, sazia come un epicureo, e pensava: “Devo aver dimenticato il passante”. Ma la cosa si ripeteva troppo spesso, così, alla fine, comprese che tra le sue arti vi era anche quella di sollevare il battente e sfilare l’asta del passante con le labbra, onde successivamente saziare la sua fame atavica.
Ora il padrone chiude con un lucchetto, ma si sente un vigliacco perché capisce che quel che la Bigia, ostinata, cerca non è il cibo, che in fondo non le è mai fatto mancare, ma la sfida irriducibile, il cimento perpetuo, il gusto irresistibile di fregarlo ancora una volta.

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