Microracconti del virus – Il cacciatore

di Stefano Falai

È mezzogiorno passato da poco; mi trovo a tavola con la moglie e la figlia. Stiamo mangiando i passatelli in brodo. Che delizia!

Improvvisamente un botto, forte, che rimbomba per tutta la casa.

“Cos’è stato?” esclama la ragazza spaventata.

La mia metà afferma decisa: “Cosa vuoi che sia!? È uno scurone che sbatte. Bisogna andare a vedere”, che è un eufemismo per dire: “vai a vedere!”.

Obbedisco, esco e giro intorno alla casa. Niente, tutto a posto, scuroni e persiane sono regolarmente agganciati alle rispettive staffe di blocco. Mi guardo intorno ma non vedo niente di strano.

 “Boh! Sarà stato lo scappamento di un camion” ipotizzo con poca convinzione e faccio la mossa di rientrare in casa. Senonché sento uno scalpiccio alle spalle. Mi giro e vedo Ciso, il mio vicino, che esce di casa correndo: imbraccia una doppietta ancora fumante. Non faccio in tempo a pensare come comportarmi che mi vede e si mette a gridare: ”L’ho preso, l’ho preso! Solo di striscio ma l’ho preso, l’assassino”.

Penso che mi convenga mantenere la calma: “Hai preso che cosa?”

“Il virus, il virus! Era un po’ che gli facevo la posta. Volava sopra casa mia, la canaglia.”

Penso: “Alé, è andato giù di testa”.

Ma facciamo un passo indietro. Il vicino si chiama Tarcisio Sconnessi; avrà passato i settanta, ma è ancora in gamba. Vive da solo e nei lavori di campagna non lo batte nessuno: raccoglie sempre prima degli altri. Non ci vediamo spesso; solo quando lavoriamo nell’orto: lui di là e io di qua dalla rete. Non parliamo di molti argomenti, anzi meno, solo dell’orto.  Per esempio, se lo vedo che non fa niente gli dico: ”Ciso, è inutile che ci pensi, la terra è bassa e così rimane!”

Lui mi risponde serioso: “Ma lo sai che hai proprio ragione?”.

E magari quando ha piovuto, ma poco, è lui che mi chiede: “Allora, l’ha fatta?”

“Ma va là! Non ha fatto niente. Bisogna che piova davvero!” gli rispondo nervoso.

Logicamente, se c’è il sole ci troviamo d’accordo che è necessario che piova. Insomma, comunichiamo col dialetto dell’orto, in altro modo sarebbe impossibile. In vent’anni che siamo vicini non ci sono mai stati problemi.

Torniamo al presente. Allora: lui è lì che mi guarda con l’espressione bellicosa.

Gli chiedo: ”Non è che hai sparato a una gallina?”

“Le galline non volano, svolazzano solo“, risponde.

“A un piccione, forse?”

“I piccioni sono più piccoli e vanno più forte.”

“Allora a un fagiano?”

“Ma che fagiano e fagiano… Ohé! Giovane, vuoi insegnare al culo a cagare? Sono cinquant’anni che vado a caccia. Gli animali li conosco!”

Cerco di farlo ragionare: “Ma, Ciso, i virus sono così piccoli che non si vedono mica”.

“Ve le bevete tutte! Allora, come mai gli americani, che sono i più potenti del mondo, fanno la fila per comprare le armi? Sono belli grossi, ‘sti virus! L’ho visto bene quando ho preso la mira: sono fatti come un pallone con dei cosi che spuntano fuori; uguali a quelli che si vedono in televisione.”

“Ma Ciso non…”

“Ho capito, sei uno zuccone! Vieni con me che lo andiamo a cercare.”

“A cercare?”

“Sì, l’ho visto che cadeva nel fosso.”

Penso: “Va a finire che ha ragione lui. Che sia un virus davvero?”.

… “Ciso, aspettami che arrivo!”

Faccio di corsa la stradina sterrata e raggiungo la via principale, che in realtà sarebbe un viale, con grandi tigli a uguale distanza e i fossi profondi più di un metro. Giro a destra e dopo un po’ arrivo davanti a casa di Ciso. Lui è lì che mi aspetta con la doppietta spianata.

“Sei matto!” gli dico,” se ti vede qualcuno…”

“Chi vuoi che mi veda? Sono tutti in casa che se la fanno addosso dalla paura.”

Lo guardo male.

“Ho capito, va bene!” esclama scocciato, appoggiando la doppietta lungo il fianco, con il braccio che parzialmente la nasconde. Camminiamo, guardinghi, lungo il viale. È una magnifica giornata, non si sentono rumori; solo gli uccelli che cantano e gli insetti che ronzano. Sembra che ce ne siano più del solito in questa primavera virale.

L’idillio viene interrotto dall’urlo di Ciso: “L’ho visto! È lì sotto che si muove”.

“Dove lì sotto?”

“A quel mucchio di foglie. Proprio nel mezzo del fosso!”

“Sì, ora lo vedo anche io. C’è qualcosa che sembra…”

“BOOM”, la schioppettata mi arriva all’orecchio come un ceffone a mano aperta, quelli che fanno più male.

Sento la puzza pungente della polvere da sparo salire su per il naso. Vedo una specie di sbuffo che si alza fino a circa due metri di altezza: foglie, terriccio e frammenti di qualcosa che non so cosa sia. Uno di questi, volteggiando come una foglia che cade, si posa ai miei piedi.

Intanto Ciso esulta, danzando sulla punta dei piedi come un guerriero Sioux. Ripete invasato: “Ora non scappi più, pezzo di merda!”.

Raccolgo il frammento: è leggero, sottile come un foglio di carta e grande quanto una mano. Lo pulisco con la manica della felpa. È di colore azzurro e c’è una scritta bianca: due parole su due righe, una sopra e una sotto. Ma sono incomplete, troncate, forse a metà: la parte finale deve trovarsi in un altro frammento andato a finire chissà dove.

Ciso si è calmato, guarda con diffidenza e mi chiede:” Che cosa c’è scritto?”

Leggo le due mezze parole: “Poli…munic”.

“Polimunic? Che sia un detersivo?” dice Ciso.

“Boh!” gli rispondo.

Il silenzio è ancora quasi assoluto, solo gli uccelli continuano a cantare e gli insetti a ronzare. Ci guardiamo per un attimo negli occhi e scappiamo di corsa ognuno a casa sua.

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