DOVE INIZIA LA LOTTA DI CLASSE?

A cura di Leo Evangelista

Le lotte della logistica in grandi e piccole città italiane hanno fatto emergere la possibilità di un’alternativa, dettata dalle necessità.
Le esperienze di lotta e le esperienza di vita portano ad assorbire come una spugna energia vitale e consapevolezze tali da portarci a stringere il pungo e tenere la barra dritta.
Modificare la realtà vuol dire cacciare gli sfruttatori, chi comanda, i padroni quindi costruire un altro ordine sociale.
Tanto la tua testa guarda avanti e quanto più è necessario vincere, per porre basi solide al cambiamento. È certo che tanto la lotta ti gonfia il cuore, altrettanto ti scava dentro. Questo perché abbiamo fame di vittoria, abbiamo voglia di vivere  “la vita in tutto il suo splendore”.

Tratto da Maelstrom di Salvatore Ricciardi

Il Picchetto

In una di quelle discussioni si parlava dei futuri scioperi. Alcuni operai affermavano che quella volta bisognava dimostrare ai padroni che gli edili erano stufi di subire “contratti bidone” e, per dimostrarlo, bisognava far riuscire gli scioperi ad ogni costo…

A quell’ora davanti ai cancelli non c’erano né padroni né dirigenti, lavoratori di qua e lavoratori di là. Gli uni volevano scioperare, gli altri volevano “portare a casa la giornata”. Ciascuno con le proprie ragioni in tasca insieme alla paga “dimmerda”, con la famiglia dietro che spesso reclamava soldi per necessità, ma a volte anche per la pressione consumista che si faceva strada e premeva.

Ce le siamo date di santa ragione. Non c’era nemmeno la polizia, quella veniva quando c’era da far rientrare i dirigenti, le altre mattine lasciavano che ci scazzottassimo tra noi. Alcuni compagni storcevano la bocca, dicevano che non si doveva fare così, che bisognava aspettare che tutti prendessero coscienza ecc., invece gli operai del “comitato di sciopero” continuavano col picchetto duro. In quelle fredde mattine mi sono reso conto che fare la lotta di classe e diventare un compagno era difficile e duro. Non solo perché dovevi scontrarti con il padrone e rischiare il licenziamento, oppure rischiare lo scontro con la polizia e l’arresto, ma perché ti dovevi scontrare con quelli come te, con i compagni di lavoro, con quelli con cui volevi bene, con cui dividevi il pranzo e qualche bevuta, e quello ti faceva male dentro. Poi lo scontro continuava i giorni successivi in cantiere. Io capivo che bisognava fare il picchetto duro, se si voleva che una lotta riuscisse a cambiare quelle schifose condizioni di lavoro. Ma poi, dopo le parole urlate e qualche spintone, chiedevo: se quelli, i crumiri – e già chiamarli così mi faceva star male- insistevano per voler entrare, cosa si doveva fare? Mettergli le mani addosso?

Poi, dopo due, tre scioperi,  qualche manifestazione, vuoi per la cocciuta ostinazione di quelli più attivi o chissà per quale ragione, la scazzottatura tra operai si è trasformata in lotta cosciente, la partecipazione agli scioperi è andata crescendo, gli edili hanno creduto che potevano vincere e, finalmente uniti, hanno portato la loro rabbia sotto le finestre dell’Acer- Associazione costruttori edili romani- un aggregato di mafiosi, palazzinari, fascisti e truffatori.

…È questo il primo momento della lotta di classe, bisogna assolutamente conoscerlo e viverlo, altrimenti si scambiano lucciole per lanterne. Discussioni, litigate,scontri con i tuoi simili, tra fratelli, dentro la tua classe. È il passaggio più duro, difficilissimo, ma necessario, inevitabile. È il passaggio dello scoglio poi la lotta non è che sia più facile, ma la puoi fare a cuor leggero.

…Gli inizi della ripresa della conflittualità sono stati durissimi, si è dovuto rompere nella classe operaia un’arrendevolezza radicata. Quei momenti difficili non si ricordano, non si raccontano. Ci sono stati eccome ma si cerca di dimenticarli. Eppure le prime macchine a cui abbiamo tagliato le gomme non sono state quelle dei dirigenti o dei sindacalisti gialli, quelle sono venute dopo. All’inizio erano quelle dei lavoratori come noi che però volevano entrare a lavorare per non perdere la giornata. E non erano macchine, ma vespe e lambrette.

…Pensavo, immaginavo la lotta sindacale, la lotta di classe, come una cosa limpida. Lavoratori da una parte, padroni dall’altra, come una partita di pallone. Dai racconti avevo capito questo. Ma non avevo capito bene. O forse quando mi raccontavano si dimenticavano qualche passaggio, la narrazione faceva torto alla realtà con le sue brutture.

…Ce le siamo dati tra fratelli: spintoni, urla e discussioni. “Ho bisogno della giornata” dicevano quelli che volevano entrare, e ognuno portava le sue ragioni, la rata di qualcosa, il figlio da mandare a scuola. “Non hai capito un cazzo” rispondevamo urlando dal picchetto, “se entri tu si rompe l’unità, perderemo la lotta e ci pagheranno per sempre meno e tuo figlio se la scorda la scuola”. Le voci si arrocchivano, il freddo, le urla, le vene del collo che si gonfiavano. È questo il mondo del lavoro, è questa la lotta di classe.

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