Le ruote sgonfie dei -trattori-

Dalla Commissione Ambiente del PCL

Fonte immagine Ansa

La protesta degli agricoltori è strettamente collegata alla questione ambientale, in buona parte conseguenza di essa e rappresenta una accelerazione verso l’inevitabile. Il paradigma è cambiato, ciò che valeva dal dopoguerra a ieri: la mutazione del contadino storico in una sorta di ibrido fra meccanico e agricoltore, è giunta all’apice. L’accumulazione capitalista non è più possibile tramite le forme organizzative e tecnologie del periodo precedente. Il capitale ristruttura e la competizione fra imprese accelera. E accelera la cancellazione di tipologie aziendali non più adeguate alla nuova fase: piccole e medie imprese agricole con pochi capitali, tecnicamente inadeguate e subalterne alla grande distribuzione. Le imprese multinazionali, i grandi produttori nazionali e la grande distribuzione, la stanno facendo da padroni e si impossessano di ogni spazio di mercato. La speculazione internazionale sui prezzi dei prodotti alimentari, sui carburanti e sui fitofarmaci, crea incertezza su cosa e come coltivare, scavando un solco fra costi di produzione e vendita al dettaglio. Cresce la concentrazione della proprietà fondiaria. Tuttavia, le contraddizioni sono arrivate al punto da non poter essere risolte all’ interno del sistema. Un fattore nuovo, mai preso in considerazione, esterno alla volontà e alla formidabile capacità del capitale di rigenerarsi, irrompe nella storia: la crisi ambientale. Gli agricoltori sono di fronte a un bivio: o curatori dell’ambiente e produttori di beni alimentari a un giusto prezzo, o agenti del capitale, distruttori di sé stessi e dell’ambiente naturale.

Da sempre settore in “crisi”, quanto meno dal secondo dopoguerra, serbatorio di consenso politico democristiano, prima, berlusconiano/leghista poi, il mondo agricolo, per usare un termine generico e per niente rappresentativo, ha vissuto gli alti e bassi di politiche, le più disparate, condotte dai Governi nazionali, fino al sopraggiungere dell’Unione Europea e il mercato globale. Facendo poi in ultimo i conti coll’affacciarsi nel sistema capitalistico delle realtà agricole degli ex stati operai deformati dell’est Europa.Venendo alla stretta attualità: alcuni elementi di comprensione sulle rivendicazioni dei vari coordinamenti dei “trattori”. Da un punto di vista della composizione sociale la protesta in corso riunisce un ceto di piccoli e medi imprenditori agricoli, titolari di aziende  che dispongono mediamente di almeno dieci ettari e oltre, in termini di dimensioni coltivate. Sono proprietari di mezzi di produzione importanti (-i trattori- che si vedono nei cortei hanno prezzi di acquisto a partire da 150.000 euro, normalmente sovvenzionati per almeno un 40% da risorse pubbliche) e ben inseriti nelle logiche produttive imposte dal sistema produttivo, dagli assetti internazionali, comprese le normative comunitarie. La mobilitazione è nata sia sull’abbrivio lanciato dai movimenti accesisi in Germania e Francia. In Italia, il movimento costituisce la base materiale ed elettorale del governo postfascista di Meloni. Infatti, una delle ragioni costitutive dell’agitazione è il presunto tradimento del governo Meloni nella legge di bilancio dello Stato. In pratica, il governo si sarebbe dimenticato delle promesse fatte al mondo degli imprenditori agricoli, fino a sconfessare le storiche organizzazioni di categoria: Colditretti, Confagricoltura, CIA. In questo contesto hanno avuto buon gioco a insinuarsi realtà organizzate, o presentatisi come tali,

Alcune peculiarità di questa mobilitazione: non solo agricoltori. All’interno di questo variegato mondo dove si ritrovano titolari di aziende agricole più o meno grandi, emerge una figura che, pur non essendo una novità, si affaccia sulla scena con un certo rilievo: il contoterzista: presente sullo scenario delle produzioni agricole, per lo meno dal secondo dopoguerra. Vale a dire, da quando l’agricoltura ha visto una consistente meccanizzazione. Da alcuni anni i contoterzisti sono la nuova formula con la quale le aziende tendono a liberarsi del problema della forza lavoro. Si tratta di aziende molto spesso giunte alla terza generazione, con consistenti investimenti in macchinari, pronte ad offrire ai produttori agricoli servizi a largo spettro. Si tratta di una categoria di imprenditori colpiti sia dall’aumento dei costi dei carburanti, sia dalle incertezze determinate dalla confusa e contraddittoria politica agricola comunitaria (PAC), caratterizzata da continui ripensamenti, intenso lobbismo, necessità di barcamenarsi fra interessi capitalistici in concorrenza. Quindi i contoterzisti sono colpiti dai repentini cambi di indirizzo del settore produttivo. Ad esempio: se sei un operatore che dispone di macchine aratorie, da semina e trebbiatrici, è ovvio che vieni colpito nel momento in cui i committenti di riferimento (parco clienti) decidono di riconvertire il seminativo a noccioleto.

Altra peculiarità della protesta italiana: non ha partecipato nessuna associazione di categoria: Coldiretti, CIA, Confagricoltura. Da sempre legate agli interessi govenativi, di tutti i governi succedutisi nella storia repubblicana, queste imponenti organizzazioni determinano la politica agricola governativa e gli indirizzi di sistema europeo, tramite la loro rappresentanza a Bruxelles (COPA). Sicché, in Italia, in questo vuoto di rappresentanza sono nati una serie di movimenti spontanei. La sensazione è che rappresentino gruppi di individui che vedevano nel governo a guida postfascista uno strumento di riscatto sovranista nei confronti delle politiche europee, e che si sono sentiti traditi. Di qui all’inserirsi di personaggi e sigle legate all’estrema destra il passo è stato breve.

Deve essere chiaro che si tratta di una protesta di imprenditori agricoli non di lavoratori. I piccolissimi agricoltori sono irrilevanti e gli operai agricoli del tutto assenti.

Il ruolo delle associazioni di piccolissimi produttori-contadini è del tutto marginalizzato. In Francia la fa da padrone la potente associazione FNSEA legata alla destra gollista. In Germania, l’estrema destra di AFD sta tentando di cavalcare la protesta. In sostanza, le blande politiche ambientali del “new green-deal” e la proposta “farm to fork”, che contemplano la riduzione dell’utilizzo dei fitofarmaci e più in generale della chimica in agricoltura, connesse con le politiche portate avanti dalle gigantesche lobby agricole industriali, hanno ridotto di molto privilegi ultradecennali, con conseguenti riduzione di margini di reddito, riduzione di accesso al credito e/o capacità di fronteggiare mutui e finanziamenti già accesi.La conseguenza è un sostanziale ridimensionamento delle strategie del “new green-deal” sull’onda della protesta.

Per approfondimenti proponiamo questo articolo di Maura Benegiamo e Federico Scirchio* , pubblicato su Jacobin Italia il 7 febbraio:

Il campo (agricolo) di battaglia:Tutto quello che vorreste sapere sulla cosiddetta «rivolta dei trattori» e che non avete osato chiedere. (Spoiler: la posta in palio è il concetto di «sovranità alimentare»)

Sfilate di trattori, greggi di animali di allevamento che bloccano caselli autostradali, getti di letame su edifici istituzionali, grigliate sulle rotonde. Queste sono le immagini, che da settimane hanno invaso lo spazio mediatico e che da qualche settimana stiamo vedendo anche nelle nostre città.
La protesta degli agricoltori si sparge a macchia d’olio nei vari paesi dell’eurozona e pone al centro del dibattito pubblico il tema dell’agricoltura, anche in vista delle prossime elezioni europee. 

Il modello di sviluppo del settore agroalimentare delineato nella Pac 2023-27 (la politica agricola comune), è in linea con quello che è il più vasto progetto Green Deal, il pacchetto di misure che punta a raggiungere la neutralità climatica entro il 2050. Ancora una volta assistiamo però a una contraddizione evidente, quando i costi della transizione ecologica vengono scaricati verso il basso e così come accaduto nel 2018 con il movimento dei gilet gialli in Francia, anche oggi ci troviamo di fronte a un movimento popolare che si oppone all’austerity green. Nonostante ci siano varie differenze tra le situazioni particolari dei vari stati membri e talvolta anche su scala regionale all’interno degli stati stessi, la peculiarità di questo movimento è che si sta sviluppando direttamente su scala continentale. 

Le proteste sono cominciate dagli agricoltori tedeschi, contrari alla scelta del governo federale di tagliare le esenzioni sui veicoli a motore e le agevolazioni sulla benzina diesel per le macchine agricole, decisione presa a seguito di una sentenza della Corte costituzionale tedesca che ha decurtato 60 miliardi di fondi destinati alla transizione ecologica e richiesto un nuovo aggiustamento di bilancio. Seppur mosse dalle dinamiche di politica interna, le proteste degli agricoltori tedeschi hanno soffiato su un malcontento bruciante e oramai pronto a esplodere, da parte di un settore agricolo che è stato messo al centro delle strategie green e di transizione, ma senza considerare il ruolo del lavoro e dei suoi soggetti. Schiacciati tra sfruttamento, autosfruttamento e forme più o meno dirette di espulsione dalla terra, le tendenze del settore agricolo europeo sono infatti in linea con gli andamenti del regime agro-alimentare globale che vede il numero di aziende agricole in accelerata diminuzione, mentre aumenta la concentrazione terriera e il ruolo dei grandi gruppi in grado di accaparrarsi la fetta principale di aiuti pubblici.

La crisi del settore, focus sull’Italia

In italia, la nuova Pac è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso per un settore che già da anni sta attraversando una forte crisi sistemica. Ci sono diversi fattori che hanno contribuito a creare una condizione insostenibile, soprattutto per i piccoli produttori che lavorano in questo campo.

La crisi climatica ha avuto una particolare rilevanza in questa crisi. Le continue siccità, le temperature stagionali più alte e gli eventi atmosferici straordinari sempre più frequenti, hanno provocato un calo dei volumi di produzione: nelle coltivazioni (-2,4%), nelle attività dei servizi agricoli (-2%) e nel comparto zootecnico (-0,8%), con un’inflessione particolarmente negativa per quanto riguarda vino (-9,5%), patate (-6,8%), frutta (-5,3%) e olio d’oliva (-5%). 

Oltre ai cambiamenti climatici, a incidere negativamente sul settore è stata la guerra in Ucraina, che ha provocato un aumento dei prodotti acquistati dagli agricoltori pari a oltre il 25%, soprattutto per quanto riguarda i fertilizzanti, l’energia, l’acqua irrigua e gli alimenti per animali. Questo ha ridotto fortemente i margini di guadagno, soprattutto per i piccoli produttori che fanno sempre più fatica a stare sul mercato, schiacciati sia dalla concorrenza dei prodotti d’importazione che dall’imposizione dei prezzi, imposta sui prodotti dagli intermediari della grande distribuzione organizzata. La Pac si inserisce in questo scenario, imponendo un limite sui terreni coltivabili, per favorire la biodiversità e sull’uso di prodotti fitosanitari, senza tuttavia una visione in grado di tenere insieme lavoro e territorio dentro una riforma strutturale che abbandoni il modello produttivista agro-industriale. 

L’abbandono del sud e delle aree interne

Le condizioni di lavoro sempre più insostenibili nel settore agricolo hanno prodotto un calo complessivo delle unità di lavoro del 5%. Dentro questo dato scopriamo che a diminuire sono soprattutto i lavoratori dipendenti (-2,5%), rispetto agli autonomi (-1,3%) e che questo calo sia avvenuto soprattutto al sud (Calabria -7%, Puglia -5,7% e Abruzzo -5,6%).

Possiamo dare un senso a questi dati, se si tiene conto che le condizioni di lavoro sempre più insostenibili hanno provocato una fuga di lavoratori da questo settore e che questo sia avvenuto prevalentemente tra i giovani che a oggi rappresentano solo il 21% del totale degli occupati del settore. Manca un ricambio generazionale e questo incide sulla fuga di giovani dal meridione, che ancora oggi è il cuore pulsante della produzione agricola del nostro paese.

Durante i presidi o le manifestazioni, soprattutto al sud, questo è un problema che emerge quando i manifestanti fanno la correlazione tra il diritto al lavoro e il diritto a restare. Salvaguardare posti di lavoro nel mondo dell’agricoltura, vuol dire in primis agire nella direzione di salvare il meridione e le aree interne dall’abbandono.

A questo quadro si sommano le tensioni per i nuovi progetti estrattivisti basati sulle rinnovabili, agro-voltaico in primis, che spaventano molti operatori del settore agricolo che si rendono conto della molteplicità di interessi che gravita sulle terre del sud italia, e in particolare delle isole.

Lo specchietto per le allodole della destra

Non è solo sul piano economico, sulla lotta tra piccoli imprenditori e multinazionali, che si sta producendo questo scontro politico. Una questione rilevante che viene inserita nel paniere delle rivendicazioni dal movimento dei trattori riguarda la commercializzazione sul mercato agroalimentare della carne sintetica e dei prodotti alimentari derivati dagli insetti. Su questo terreno è la destra, in primis Matteo Salvini, ad avere buon gioco, a difesa delle cosiddette eccellenze alimentari della nostra tradizione. Non ci sorprende che ci sia un tentativo della Lega di strumentalizzare la protesta per acquisire consenso, dal momento che per ora Giorgia Meloni non sembra prendere una posizione, a parte il timido tentativo di incontro con i manifestanti del ministro Francesco Lollobrigida alla Fieragricola di Verona. 

La posta in gioco ideologica è sul concetto di sovranità alimentare, preso e capovolto dalla destra di governo, che lo ha usato per nominare il ministero preposto alla governance in tema di politiche agricole. Questo concetto oggi viene usato come strumento per promuovere un modello di agrobusiness e di cibo in tavola vicino all’immaginario di Eataly, creando così una discrasia rispetto all’idea di favorire un rapporto diretto tra produttore e consumatore, cosa possibile solo tutelando le economie di piccola scala. Questa è la trappola demagogica del discorso contro la carne sintetica o gli insetti, che permette alla destra di puntare il dito contro una merce specifica, mantenendo allo stesso tempo il modello di mercato che favorisce le grandi aziende a danno dei piccoli produttori. Anche la visita di Salvini al pastificio Rummo, che mette a confronto la farina d’insetti con la vera e autentica pasta all’italiana, non punta a tutelare i piccoli produttori ma a difendere le grandi aziende, i top player dell’agrobusiness, quegli stessi intermediari della filiera che schiacciano sul mercato piccole e microimprese imponendo prezzi stracciati sui prodotti alimentari. 

Il rischio populista

Quella degli agricoltori è tuttavia una categoria tutt’altro che unitaria, che comprende al suo interno svariate figure professionali, dalla piccola-media impresa, spesso a conduzione familiare con poche unità lavorative, alla grande azienda, per includere poi i – sempre maggiori – contoterzisti: imprenditori e artigiani, spesso ex agricoltori, che hanno sostituito alla proprietà della terra un comparto macchine che usano per coltivare più appezzamenti agricoli di proprietà di terzi.

In questo quadro variegato i rischi di una narrazione populista identitaria e nazionalista sono molteplici. Anzitutto assistiamo alla retorica dei produttori schiacciati dall’Europa e dalle élites finanziarie e neoliberiste che, seppur non completamente falsa, finisce per assimilare i grandi proprietari agro-industriali ad altre forme di agricoltura – quella contadina in particolare – come se avessero gli stessi problemi, finendo per sostenere riforme più favorevoli all’espansione del modello di agricoltura industriale, come mostra anche l’esito delle proteste in Francia. 

Qui, non solo il governo ha ceduto alle pressioni della Fnsea, sindacato maggioritario situato a destra nella sfera politica e composto principalmente da grandi produttori, promettendo una messa in pausa del piano Ecophyto 2030, che mira a ridurre l’uso dei pesticidi in Francia del 50% entro il 2030 rispetto al periodo 2015-2017. La misura del governo francese trascura volutamente le contraddizioni politico-economiche del settore agricolo e tra quest’ultimo e le altre componenti della società (consumatori, abitanti, lavoratori migranti, ecc.). Ha inoltre dato prova di un doppio standard quando ha sgomberato gli ultimi due blocchi appartenenti alla Confédération paysanne, il principale sindacato di sinistra, legato ai piccoli produttori, che non avevano seguito le indicazioni della Fnsea per la sospensione dei blocchi a seguito dell’accordo. Per tutta la durata del movimento infatti, il ministro dell’Interno francese Gérald Darmanin ha optato per un non intervento, dando ampio spazio alle azioni di protesta, intimando solamente di non avvicinarsi alla capitale. In un comunicato stampa, la Confédération paysanne ha espresso indignazione per la «scelta del governo di trattare in modo diverso le mobilitazioni e le organizzazioni sindacali» sottolineando come il governo abbia dato ascolto agli «interessi personali dei manager agricoli speculativi mentre nulla è stato risolto sulla questione centrale del ‘reddito’ degli agricoltori».

Lo sbocco a sinistra della Via Campesina

Abbiamo visto come questa mobilitazione rischi di configurarsi principalmente come uno scontro tra produttori, prospettive green e Unione europea, che oscura le differenze tra grandi, piccole e microimprese dentro una tendenza al monopolio di mercato e alle pressioni della grande distribuzione organizzata. È lecito quindi chiedersi: può esistere uno sbocco a sinistra dentro questo scenario? 

Una prima risposta ci arriva dal coordinamento Via Campesina, che racchiude al suo interno più di 180 gruppi di agricoltori e agricoltrici da tutto il mondo, gli stessi che hanno coniato il termine «sovranità alimentare». Fin dalla sua fondazione, i gruppi che ne fanno parte si sono riuniti per coordinarsi attorno all’obiettivo di una politica alimentare su scala locale, decisa da e per gli abitanti,  che tenga conto anche della giustizia sociale per quanto riguarda le condizioni di lavoro e del ruolo centrale della produzione contadina, agroecologica e su piccola scala nella realizzazione del diritto umano all’alimentazione.

In questo quadro il concetto di sovranità alimentare si associa alla necessità di decolonizzare il sistema agro-alimentare globale e promuove una visione del cibo come non merce: «Gli agricoltori europei hanno bisogno di risposte concrete ai loro problemi, non di fumo negli occhi. Chiediamo la fine immediata dei negoziati sull’accordo di libero scambio con il Mercosur e una moratoria su tutti gli altri accordi di libero scambio attualmente in fase di negoziazione. Chiediamo l’effettiva attuazione della direttiva sulle pratiche commerciali sleali e il divieto a livello europeo di vendere al di sotto dei costi di produzione, utilizzando come esempio quanto sviluppato dallo Stato spagnolo nella sua legge sulle filiere agroalimentari. I prezzi pagati agli agricoltori devono coprire i costi di produzione e garantire un reddito dignitoso. I nostri redditi dipendono dai prezzi agricoli ed è inaccettabile che questi siano soggetti a speculazioni finanziarie. Chiediamo quindi una politica agricola basata sulla regolamentazione del mercato, con prezzi che coprano i costi di produzione e la gestione di scorte pubbliche di derrate. Chiediamo un bilancio adeguato affinché i sussidi della Pac vengano ridistribuiti per sostenere la transizione verso un’agricoltura in grado di affrontare le sfide della crisi climatica e della biodiversità. Tutti gli agricoltori già impegnati e che vogliono impegnarsi in processi di transizione verso un modello agro-ecologico devono essere sostenuti e accompagnati nel lungo periodo. È inaccettabile che nell’attuale Pac la minoranza di aziende agricole più grandi monopolizzi centinaia di migliaia di euro di aiuti pubblici, mentre la maggioranza degli agricoltori europei non riceve alcun aiuto, o solo le briciole».

Questa posizione sintetizza bene quali sono le possibili proposte a sinistra, che potrebbero portare fuori dal puro corporativismo di questa lotta e quindi allargare la protesta in chiave antagonista verso l’attuale modello agro-industriale. Allo stesso tempo, questa formula riesce a sciogliere il nodo della contrapposizione tra salvaguardia dell’ambiente e dei posti di lavoro, attraverso uno sguardo che impone una transizione dal basso, che vede come principali attori protagonisti di questo compito proprio i piccoli produttori e che non lascia le redini della sfida climatica nelle mani di Bayer, Monsanto o Barilla. Benegiamo

*Maura, ricercatrice in Sociologia economica e del lavoro all’Università di Pisa, è autrice del libro La terra dentro il capitale, Orthotes editrice (2021), si occupa di ecologia politica, estrattivismo e transizione ecologica. Federico Scirchio, laureato in filosofia e militante di ecologia politica, si occupa di temi legati all’ecologia e alle nuove tecnologie.

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