Morti sul lavoro: una questione di rapporti di forza

Di Partigiano Stanziale

“La condizione permanente ed essenziale dell’imprenditore è l’avarizia”

Erman Melville: Moby Dick, capitolo XLVI

L’ipocrisia borghese continua ad ogni morte sul lavoro. La morte singola non -sfonda- salvo situazioni particolari, tanto orripilanti da non poter essere ignorate, come quella di un ragazzino nell’alternanza scuola lavoro, o di una giovane donna stritolata da una macchina: lo stillicidio continua di giorno in giorno nell’indifferenza generale. Tutta l’informazione si riduce a un -trafiletto- in qualche quotidiano. Quando accade il fatto grosso, la strage, che non può essere ignorata, i borghesi parlano di operai: del lavoro nero, della mancanza di sicurezza nei cantieri, della carenza dei controlli e di quanto è ingiusto morire per portare a casa il pane. I borghesi al Governo annunciano ulteriori controlli e l’assunzione, improbabile, di centinaia di nuovi ispettori. I sindacati scendono sul -piede di guerra- con due ore di sciopero. “Ci vuole il reato di omicidio sul lavoro” urlano assatanati, tanto per dimostrare che se dipendesse da loro… I preti pregano, ovviamente, il Padre Eterno e i datori di lavoro a mettersi una mano sulla coscienza. Per qualche giorno tutti emettono sentenze e propongono soluzioni. Ma i lavoratori tacciono, non parlano, non fanno tavole rotonde, né scrivono articoli indignati sui quotidiani. Tacciono perché non sanno cosa fare e ignorano cosa potrebbero fare. Tacciono perché sanno che domani il cantiere, la fabbrica, la piantagione, l’officina saranno uguali a prima. Dunque conviene tacere, anzi, meglio non pensarci. La macchina borghese della produzione è imperscrutabile. Sotto la superfice, sulla quale sopravvive un sindacato, che garantisce lo sfruttamento in relativa sicurezza, vige l’arbitrio, la dittatura, la violenza esercitata senza scrupolo da migliaia di padroni e padroncini, dentro una miriade di imprese, o presunte tali, dalla vita effimera come bollicine di sapone. Non vuol dire che tutti gli imprenditori siano canaglie, sarebbe troppo semplice, troppo evidente. Molti di essi ci tengono alla propria forza lavoro, un po’ perché conviene e un po’ perché l’avidità non ha ancora distrutto la loro coscienza. Non è una questione morale o culturale, né di formazione, né di aumentare le ispezioni (che non servirebbe a molto); è una questione di chi comanda nel lavoro. Se si considera l’insieme del sistema produttivo, nel quale ogni parte, anche la più semplice, svolge un lavoro indispensabile e specifico, i morti sul lavoro appaiono come i gas di scarico di un veicolo: puzzano, inquinano, ma sono inevitabili. Sono una seccatura, un costo, un effetto collaterale, ma fanno comodo a tutti; per la semplice ragione che i lavoratori meno tutelati, delle aziendine sub-appaltatrici (o addirittura in nero), contribuiscono ad abbattere sensibilmente il costo della forza lavoro, accrescendo i profitti e abbattendo il salario relativo (differenza fra salari e profitti). Il sistema dei subappalti non solo fa comodo ai capitalisti, ma consente ai burocrati dei sindacati concertativi un margine di contrattazione nelle aziende sindacalizzate. In sostanza, gran parte dei pericoli pesano vigliaccamente sulla parte più debole del lavoro dipendente. Se il lavoro nelle imprese di pulizia, nella ristorazione, nel turismo, eccetera, fosse pericoloso, come nell’edilizia, sarebbe un’ecatombe. Anche il confindustriale più virtuoso, che dichiara con orgoglio: “Nelle nostre aziende la sicurezza è garantita” è un cinico ipocrita. Questa è la realtà brutale. Nel capitalismo la forza lavoro è una merce e come tale viene trattata: si compra, si vende, si deteriora, si guasta… e si distrugge. Dopo ogni singolo evento luttuoso, la sola giustizia possibile in questo sistema senza giustizia, bene che vada, sarà la mite condanna di qualche figura marginale, parafulmine, più o meno consapevole, delegato dalla proprietà; e pochi soldi alla famiglia delle vittime, dopo anni di processi. I veri responsabili, i capitalisti (nessuno escluso) e i politici che li rappresentano, rimarranno impuniti. E tutto ciò, nel ripetersi sistematicamente, concorre a creare sconforto e rassegnazione; e a diffondere nelle masse l’dea reazionaria che: “Fra deboli e forti, vinceranno sempre i forti”. Se invece si guarda al passato, che è l’attualità del presente, il quale a sua volta prefigura il futuro, si vede che i lavoratori hanno tutte le qualità necessarie per dirigere la produzione.  È vero e ha già funzionato, cioè è già successo, si tratta di rifarlo funzionare, rovesciano il paradigma fra deboli e forti: “I deboli vinceranno perché sono tanti”.

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