Il rap, la trap e i bisogni indotti

La Tammurriata è una danza tradizionale della musica campana in cui prevalentemente si alternano voce e controvoce, nell’urgenza della denuncia. Forse “Tammurriata nera” è il testo più famoso e conosciuto in tutto il mondo: attraverso le sue rime emerge il contesto napoletano e italiano del dopoguerra, quando gli americani liberatori approfittarono della popolazione provata nell’animo e nella pancia.

Negli anni  Novanta, invece, proprio da influenze americane si evolve il rap, discorso ritmico e linguaggio di strada, sull’onda del disagio percepito dalle masse stipate in quartieri ghetto. Qui si esprimono idee più o meno di sinistra e, soprattutto da parte di qualche gruppo un po’ più audace, concetti comunisti. Non a caso i rapper provengono da quartieri ghetto come Scampia, Quarto Oggiaro, Zen e così via.

Quell’onda musicale portò in Italia milioni di persone in piazza, non vi era manifestazione dove non si sentivano testi di denuncia sociale. Erano i figli dei sessantottini che credevano ancora nel bene della collettività e non nell’individualismo, dove era ben chiaro il conflitto tra padroni e proletari.

Gli anni Duemila sono stati lo spartiacque definitivo: nasce la musica Trap, nascono gli influencer, gli aperitivi e il divertimento triste a tutti i costi: 40 anni di lotte femministe e di lotte operaie vengono definitivamente archiviate.

Nei loro testi i trapper ostentano la loro ricchezza, i loro vestiti firmati, il loro sessismo, la loro omofobia. Insomma un concentrato di idiozia sparata verso una platea prevalentemente adolescenziale, alimentata con concetti atroci, come l’individualismo esasperato.

Risulta anche abbastanza normale ed evidente che giovanissimi come Ugo Russo o Davide Bifolco, armati di pistola giocattolo, cerchino anche loro quel posto al sole tanto decantato dai novelli Dante. In realtà trovano sempre un poliziotto sulla loro strada che con due colpi di pistola pongono fine alla loro vita, nell’indifferenza dell’opinione pubblica.

I trapper  provengono fondamentalmente dagli stessi quartieri dei rapper, sanno bene a chi si rivolgono, sanno bene che loro testi sono un esempio e sanno altrettanto bene che il figlio di un proletario non potrà mai permettersi una maglia firmata o un paio di scarpe firmate. Non hanno problemi a spingerli a sentirsi delle nullità, come se non fosse già dura vivere tutti i giorni con i propri demoni, con le proprie frustrazioni, come se non fosse già troppo non avere la possibilità di studiare, di emergere, di avere un lavoro regolare o di vedere i propri parenti permettersi una cura in una sanità sempre più privata. Certo i trapper  non sono il male assoluto, anzi, si tratta di un’evoluzione musicale molto interessante, ma l’effetto negativo sugli adolescenti è altrettanto evidente. Credo fortemente nel potere della musica e mi auguro che questa ritorni ad essere sì un momento di svago, di evasione, ma anche che ritorni a mettere nella testa dei giovani la lotta di classe, l’importanza della collettività, perché mai come adesso ne abbiamo bisogno per combattere un capitalismo sempre più cinico e spietato.

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