LA BATTAGLIA DEL MARXISMO RIVOLUZIONARIO DAL 1848 AL 1923

PARTE 2 : LA BATTAGLIA DEL MARXISMO RIVOLUZIONARIO DALLA II ALLA III INTERNAZIONALE

di Marco Ferrando

(2002)

Si chiude una prima parte di questa introduzione e passiamo a una seconda parte che è quella che investe il periodo storico che va dalla fondazione della II Internazionale, attraverso la rivoluzione russa sino alla fondazione della III Internazionale. L’arco storico è evidentemente periodo molto complicato e tumultuoso sia dal punto di vista della storia europea sia dal punto di vista della storia del movimento operaio. Dal punto di vista della storia europea è la fase in cui progressivamente declinò il lungo periodo di sviluppo pacifico e democratico del capitalismo che vi era stato in Europa dopo la sconfitta della Comune a partire sostanzialmente dal 1873, comparve il fenomeno dell’imperialismo, iniziò a scatenarsi la lotta per le colonie, incominciarono a soffiare i venti di guerra che costituirono il preludio alla prima grande guerra imperialista. E al tempo stesso il movimento operaio conobbe glorie e disastri come forse mai era avvenuto nella stagione storica precedente: dal grande successo -come dirò- della costituzione della II Internazionale alla rovina e al crollo di questa sullo sfondo della prima guerra imperialista, sino a quel processo di profonda ricomposizione della rappresentanza politica del movimento operaio mondiale che, passando per la rivoluzione russa, sfocerà nella III Internazionale. Quindi uno sfondo e un affresco storico “terribile”. Vediamo, nei limiti anche qui di una ricostruzione necessariamente sintetica, di individuare l’essenziale.

La II Internazionale: dal successo all’inizio della degenerazione

Intanto con la fondazione della II Internazionale nel 1889 si registrava sicuramente un successo del movimento operaio e anche un coronamento e un successo della lunga battaglia di egemonia del marxismo rivoluzionario all’interno del movimento operaio. Il successo era indubbio: la II Internazionale conosce un’estensione mondiale molto più grande e significativa che non la I Internazionale, vede uno sviluppo dei partiti nazionali, delle sezioni nazionali, molto consistente in termini di radicamento operaio e sindacale, di sviluppo di massa (basti pensare che l’organizzazione più importante, cioè il partito socialdemocratico tedesco, che era un po’ il suo fiore all’occhiello, dopo il superamento delle leggi antisocialiste imposte da Bismark, conterà centinaia di migliaia di iscritti, milioni e milioni di voti, ottanta organi di stampa). Inoltre la II Internazionale fu un successo dal punto di vista della battaglia per l’egemonia del marxismo rivoluzionano perché le posizioni generali per cui Marx e Engels si erano battuti lungo tutto il corso storico precedente contro i proudhoniani, contro i bakunisti, contro i lassalliani etc., sembravano aver consolidato un’egemonia nel movimento internazionale della classe operaia. Questo non significa che la II Internazionale nascesse con un quadro totalmente omogeneo neanche dal punto di vista teorico: per esempio erano presenti in misura non irrilevante nei primi congressi forze e tendenze di derivazione sindacalista o anarcosindacalista. Ma il grosso delle sue forze era formalmente attestato sulle posizioni del marxismo: la classe operaia come soggetto della trasformazione, la lotta di classe come leva della storia, la centralità della conquista del potere politico e della dittatura del proletariato, il quadro internazionale del programma, tutti principi centrali in qualche modo attestati formalmente anche nei programmi delle sezioni e negli statuti. E indubbiamente la II Internazionale ha avuto anche un ruolo storico positivo nel diffondere e propagandare questi principi presso milioni di lavoratori e più generazioni. Il problema è che la vita di un’organizzazione, di un partito non è semplicemente la vita delle sue idee, ma si fonda sulla relazione tra quelle idee, la storia della lotta politica, la storia della lotta di classe, la storia in generale. Ed è in questo quadro che in realtà la vita della II Internazionale sarà una parabola di progressivo, lento, graduale allontanamento dalle premesse originarie su cui formalmente era stata fondata. La chiave di volta fu indubbiamente (vado per massime semplificazioni) la vita e la storia del partito tedesco. Sino a che esso dovette fronteggiare le leggi di Bismark, che l’avevano messo nella semi illegalità, aveva tenuto dal punto di vista delle posizioni generali del marxismo rivoluzionario. Quando cadde la barriera delle leggi antisocialiste (e cadde anche come esito di una battaglia vincente contro corrente di resistenza di tutta l’Internazionale e della sezione tedesca in particolare) si dispiegò una stagione interamente nuova. Il partito sviluppò la sua dimensione legale, conobbe un enorme sviluppo della sua rappresentanza parlamentare, allargò enormemente il suo apparato di funzionari, moltiplicò i

propri legami con gli apparati delle organizzazioni sindacali, che a loro volta conobbero in Germania un impetuoso sviluppo sull’onda della seconda rivoluzione industriale e col sistema cooperativo, che in Germania era particolarmente sviluppato; tutto questo sullo sfondo storico di una relativa prosperità economica e di espansione progressiva della democrazia. Ecco che in questo quadro e su questo sfondo le pressioni della classe dominante, le pressioni dello Stato, la tentazione dell’adattamento alla routine, al sistema parlamentare, al potere governativo in qualche modo aprirono una breccia (molto lentamente all’inizio) all’interno del partito. Non che si mettessero in discussione i principi, il programma, le idealità, le prospettive, anzi erano difese come poi dirò nel modo anche più brillante dall’ortodossia dirigente di quel partito e dell’Internazionale. Ma la pratica politica tendeva sempre più a separarsi, ad adattarsi alla routine della vita parlamentare, della vita sindacale, al programma minimo per intenderci, che sempre più si divaricava dal programma massimo. E’ molto interessante notare (purtroppo lo posso fare solo con un breve riferimento) come Engels avesse per primo colto e individuato già all’inizio il germe della futura, ancora soltanto potenziale degenerazione. Lo dico perché anche qui un luogo comune estremamente diffuso è quello per cui Engels, e in particolare l’ultimo Engels, sarebbe quello che avrebbe moderato il marxismo: è la leggenda di un Engels positivista, di un Engels in definitiva un po’ “riformista”, che avrebbe scritto la famosa Introduzione a Le lotte di classe in Francia del 1848-50 per dire che l’epoca delle rivoluzioni era finita e che si apriva ormai l’epoca della sola lotta legale (poi si è scoperto che questo testo era stato totalmente stravolto e censurato dai dirigenti dell’epoca con tanto di protesta di Engels). Questa è la rappresentazione: Engels sarebbe stato colui che si era accorto che il mondo era un po’ più complesso e che di conseguenza avrebbe suggerito un maggiore “realismo” rispetto alle posizioni di Marx. La realtà storica non solo è diversa ma è esattamente capovolta: l’ultima battaglia di Engels, l’ultima grande battaglia di Engels, negli ultimi anni della sua vita sarà rivolta proprio contro i germi ancora potenziali dell’opportunismo e del riformismo all’interno della socialdemocrazia tedesca in funzione dei principi e della tradizione rivoluzionaria. Basta fare un esempio, che è la critica di Engels al Programma di Erfurt del1891, non a caso significativamente citata più volte da Lenin. Dice Engels:

Forse è pericoloso toccare questo tasto eppure bisogna in un modo o nell’altro far avanzare le cose. Quanto ciò sia necessario è provato dall’opportunismo che si diffonde precisamente oggi in una gran parte della stampa socialdemocratica. Per paura che si rinnovino le leggi contro i socialisti, e ricordandosi le varie opinioni emesse prematuramente nei tempi in cui queste leggi erano in vigore, si vorrebbe ora che il partito riconosca che l’ordine legale il quale vige oggi in Germania può bastare per far realizzare per via pacifica tutte le rivendicazioni”.

Engels respinge questa illusione. E conclude con questa bellissima frase:

Questa dimenticanza delle grandi questioni di principio di fronte agli interessi passeggeri del giorno, questa corsa ai successi momentanei e la lotta che si svolge attorno ad essi senza preoccuparsi delle conseguenze ulteriori, questo abbandono dell’avvenire del movimento che si sacrifica per il presente possono forse provenire da motivi onesti ma sono e rimangono dell’opportunismo. E l’opportunismo onesto è forse il più pericoloso di tutti”.

Fu l’ultima grande battaglia di Engels.

Le basi del revisionismo

A due anni dalla morte di Engels nel ’95 noi abbiamo il primo manifestarsi esplicito e significativo nel campo della teoria e della teoria organica di quel germe che Engels aveva individuato. Compare con Edward Bernstein, uno dei principali dirigenti del partito socialdemocratico dell’epoca, il cosiddetto revisionismo, che si annuncia nei due testi I problemi del socialismo e Presupposti del socialismo, scritti da Bernstein nel ’97-98. Contrariamente a quanto si crede Bernstein non rompe formalmente né con Marx né con la prospettiva programmatica della proprietà pubblica dei mezzi di produzione, anzi riverisce, fa omaggio al programma. Semplicemente tutto il quadro della sua argomentazione è totalmente divaricato e contrapposto alla sostanza rivoluzionaria del programma di Marx. Egli esordisce con una frase che

scolpisce una intera cultura: “Il fine è nulla, il movimento è tutto”. E’ esattamente il capovolgimento sostanziale di tutta l’impostazione marxista e tutta la sua analisi va esattamente in questa direzione. Cosa dice in sostanza Bernstein? “Le crisi sono ormai cosa del passato, non vedete che dal 1873 non c’è più una crisi commerciale in Europa? C’è un ingresso sempre più prepotente dello Stato nell’economia inteso come elemento di stabilizzazione della società capitalistica; la lotta di classe non solo non si acuisce, come voleva Marx, ma si appiana perché gli operai stanno sempre meglio.” Segue un’analisi molto minuziosa di quello che chiameremo con il linguaggio di oggi il mutamento della composizione sociale della classe operaia. Dice: ”Vedete? Calano gli operai dell’industria dalle mani callose, si sviluppano i ceti impiegatizi, nascono le nuove classi medie, in altri termini: il socialismo è già in fieri nella società capitalistica.” E badate è già in fieri non come potenzialità rivoluzionaria, perché questo lo diceva anche Marx sulla base della sua concezione materialistica della storia, ma, come progressivo e graduale divenire, il socialismo si sta già sviluppando oggi. Qual è allora la funzione della socialdemocrazia secondo Bemstein? La funzione della socialdemocrazia è in buona sostanza non quella di contrapporsi a questo processo, che è dato, ma è quello di sospingerlo e incalzarlo attraverso l’azione quotidiana che è il lavoro nelle cooperative, il lavoro sindacale e soprattutto il lavoro parlamentare legale. Quello che accadrà accadrà: l’importante appunto è il movimento presente, questa azione quotidiana e minimale di accompagnamento. Questa teoria revisionistica aveva delle basi di consenso inizialmente molto ridotte anche se particolarmente concentrate (e non a caso) nei settori dell’apparato e in particolare nella frazione parlamentare della socialdemocrazia e segnatamente della socialdemocrazia tedesca. Ma la sua forza, nonostante l’esiguità delle sue basi immediate di consenso, stava nel fatto che portava alle estreme conseguenze una tendenza e una parabola degenerativa che sia pur nascostamente aveva cominciato a erodere le basi della II Internazionale e del suo principale partito. E del resto che la questione fosse seria emerse un anno dopo la pubblicazione delle due opere di Bernstein citate, quando il caso Millerand (1899) scosse l’intera II Internazionale. Che cos’è il caso Millerand? Questi era un dirigente parlamentare del partito socialista francese che era entrato in un governo borghese repubblicano. Naturalmente in seguito l’ingresso dei socialisti nei governi borghesi diventerà uno sport, e uno sport di massa, ma all’epoca non era mai avvenuto e questo suscitò uno scandalo: era in definitiva la prova provata delle potenzialità degenerative del revisionismo non solo dal punto di vista della teoria ma dal punto di vista della prassi politica.

Il Centro di Kautsky: le origini del “centrismo”

Si produsse una reazione al revisionismo nella II Internazionale? Sì, si produsse una reazione e anche relativamente significativa. Il problema è di capire in che termini, su che terreno, con quali contraddizioni. La reazione al revisionismo si sviluppò nei congressi della II Internazionale del primo ‘900. Non a caso, emblematicamente, dopo la vicenda Millerand. Il tema del revisioniamo emerse come tema centrale di confronto e di scontro nei congressi dell’Internazionale non solo in Germania.

E ad assumere la prima linea formalmente nella critica e nella contrapposizione al revisionismo fu il cosiddetto “Centro” dell’Internazionale che poi era il Centro, la direzione della sezione tedesca dell’Internazionale e aveva due nomi di riferimento: Bebel, ma soprattutto Kautsky. Costui veniva definito all’epoca, con un’espressione un po’ dispregiativa ma significativa dalla stampa borghese, “il papa rosso”, il grande erede di Marx e di Engels, la principale autorità politica e intellettuale del movimento operaio internazionale ed effettivamente era un personaggio di grandissime e brillanti capacità. Kautsky assunse su di sé l’onere di questo scontro con il revisionismo. Dal punto di vista della tempestività della replica, non gli si può muovere alcuna critica in quanto l’anno immediatamente successivo al testo di Bernstein (1897-98) c’è subito il testo di Kautsky, L’antiBernstein, in cui polemizza in modo formalmente ortodosso contro tutte le posizioni del revisionismo. Si scrivono articoli, risoluzioni, mozioni nei congressi nazionali e internazionali, si svolgono brillanti duelli oratori contro i revisionisti anche nei congressi della II Internazionale, uno dei più celebri, che fece letteratura nella politica dell’epoca, fu quello di Bebel contro Jaurès (uno dei sostenitori, anche se tra i più onesti e pur con qualche contraddizione, delle posizioni revisioniste). Quindi il volume di fuoco fu speso, e ciò nonostante fu un volume di fuoco che si sviluppava con mille contraddizioni interne su un terreno accidentato e soprattutto lungo una parabola discendente.

Tre furono gli elementi di grande debolezza e contraddizione in questa contrapposizione del Centro kautskyano al revisionismo. Primo: Kautsky voleva l’unità con i revisionisti, Kautsky non voleva rompere con i revisionisti. La sua preoccupazione era che si potesse scindere il gruppo parlamentare in Germania. In una logica in cui il parlamento era il baricentro della vita politica quotidiana della sezione tedesca e dell’Internazionale, quella sarebbe stata in qualche modo la scissione del partito, quindi “non bisognava rompere con i revisionisti” ed è chiaro che partire con questo piede significava già partire da una posizione di infinita debolezza. Secondo: proprio per evitare di rompere con i revisionisti, invece di andare avanti nella battaglia contro il revisionismo, si andava indietro in direzione di un ammorbidimento progressivo degli stessi principi che formalmente si evocavano. Il congresso internazionale di Parigi del 1900 fu da questo punto di vista emblematico. Qual era l’ordine del giorno? Il caso Millerand. La questione era semplice. Ribadire un principio che era dato per scontato in tutta la storia precedente del movimento operaio marxista, secondo cui Millerand aveva tradito perché era entrato in un governo della borghesia e i comunisti dovevano stare all’opposizione dei governi della borghesia quale che fosse la conformazione e il profilo di questi governi. Invece non si fece questo. Si strutturò un ordine del giorno, una risoluzione conclusiva (che non riporto ovviamente per ragioni di tempo), in cui in buona sostanza si diceva: “Millerand ha sbagliato”, ma non perché la questione della non partecipazione ai governi borghesi fosse una questione di principio (E’ fondamentalmente una questione tattica -si disse- certo deve essere una tattica applicata solo eccezionalmente, non può essere la regola, perché la regola è un’altra, ma “vi possono essere delle situazioni di emergenza in cui del tutto eccezionalmente i socialisti entrano a far parte del governo.”) Il grave errore di Millerand sarebbe stato quello di aver fatto questa scelta da solo: senza avere il mandato del partito del gruppo dirigente, dei gruppi parlamentari. “Disciplina compagni!”, questo era il messaggio. Che formalmente si presentava come una censura ma in realtà cedeva esattamente sul terreno centrale del revisionismo: cioè lo sviluppo progressivo di una logica di collaborazione di classe, di collaborazione governativa. Terzo: questo passo indietro da gambero si combinava proprio in Kautsky, nella politica del centro dell’Internazionale, con una divaricazione progressivamente più ampia tra l’ortodossia formale dei principi e la pratica politica reale. Kautsky da questo punto di vista, nel primo decennio del secolo, è un esempio vivente di questa dissociazione progressiva. Negli scritti del 1902 e del 1903, fino al 1909 quando scrive La via al potere (che non a caso è citata a più riprese da Lenin fra l’altro nella polemica con il menscevismo russo), Kautsky appare l’ortodossia vivente della tradizione rivoluzionaria marxista. Infatti La via al potere affermava che l’epoca del riformismo era finita, che si apriva la via della rivoluzione in Europa, che bisognava preparare la prospettiva rivoluzionaria; ma quello stesso Kautsky sul terreno della politica concreta dell’Internazionale e della sezione tedesca in particolare andava esattamente nella direzione opposta: per cui per esempio quando nel 1905 irruppe la prima rivoluzione russa, quando il proletariato russo sperimentò in proporzioni gigantesche lo sciopero generale e quando l’impatto di questo sciopero generale degli operai russi fu enorme in Europa e persino la classe operaia tedesca iniziò a dire quello che si dirà in altre condizioni e in altri tempi, “Facciamo come in Russia!”, Kautsky si affrettò a dire che la Russia era un paese arretrato, che lo sciopero generale che c’era stato in Russia era espressione di quest’arretratezza, che in Germania sarebbe stata una follia anche solo pensare allo sciopero generale e che solo in un caso si sarebbe potuto pensare allo sciopero generale, se cioè fossero ritornate le leggi eccezionali antisocialiste. E allora per difendere il partito, per difendere il suo diritto legale e democratico al limite si sarebbe potuto anche pensare a questa forma estrema. Era una divaricazione sempre più clamorosa e sempre più impressionante.

La sinistra marxista rivoluzionaria nella Il Internazionale

E’ in contrapposizione al revisionismo e in un processo di differenziazione progressiva dal Centro kautskiano che inizia a svilupparsi all’interno della II Internazionale, inizialmente su basi molto ristrette, una sinistra marxista rivoluzionaria dell’Internazionale. Che porta il nome di Rosa Luxemburg, di Lenin, di Trotsky, e che costituirà storicamente in prospettiva la leva costituente della rottura con l’opportunismo e con il centro e quindi della III Internazionale comunista. In definitiva la storia di questa sinistra marxista

internazionale è la storia della sua progressiva autonomizzazione e rottura con il centro, cioè con il centrismo, con la logica politica di cui quel centro era espressione: cioè la divaricazione fra i principi e la politica. Naturalmente, se avessimo tempo, sarebbe molto importante e credo anche molto istruttivo per tutti noi approfondire paese per paese questo processo di autonomizzazione e rottura e magari individuare anche gli elementi di divisione, di polemica, di battaglia politica che a volte sono intercorsi all’interno della sinistra marxista rivoluzionaria tra i suoi esponenti più significativi. E’ evidente per esempio che questa rottura col centro è avvenuta in termini disomogenei e con ritmi diseguali da paese a paese. Per intenderci va sfatato il mito delle personalità al di sopra dei loro errori e della loro storia. E’ indubbio che Lenin che era stato all’avanguardia nella rottura con il centrismo russo dei menscevichi, fu quello che più tardi comprese e razionalizzò il centrismo di Kautsky e quando gli arrivò la notizia che Kautsky e la socialdemocrazia tedesca avevano votato i crediti di guerra, Lenin era talmente incredulo da pensare che fosse uno scherzo dei servizi segreti dell’epoca. Dopo di che la rottura con il centro internazionale e in particolare con Kautsky fu più determinata in lui che non in altre figure della sinistra marxista internazionale. Così viceversa Rosa Luxemburg fu una figura che per prima (credo che questo sia stato un suo grande merito storico) colse la sostanza del kautskysmo, naturalmente facilitata dall’essere direttamente a contatto con esso. Rosa Luxemburg già nel 1910, nel suo scritto Teoria e prassi, attua una rottura profondissima con il kautskysmo e non a caso Teoria e prassi persino nel titolo sta a indicare la chiave di denuncia del kautskysmo, cioè la divaricazione progressiva tra la teoria e la prassi, i principi e la politica quotidiana. E chi conosce lo stupendo testo di Rosa Luxemburg, l’antiBernstein, Riforma sociale o rivoluzione?, vede che formalmente è un testo tutto contrapposto al revisionismo di Bernstein: ma è contrapposto al revisionismo di Bernstein non in nome di una ortodossia formale di tipo kautskyano, ma in nome di un richiamo sostanziale all’ispirazione di una politica rivoluzionaria. Il concetto fondamentale che sta in Riforma sociale o rivoluzione? è che solo i fini possono ispirare una politica rivoluzionaria, ma che una politica rivoluzionaria è tale solo se traccia un ponte tra gli obiettivi immediati e lo scopo finale. Da questo punto di vista è di fatto un testo antikautskyano, e non solo semplicemente un testo antirevisionista. Così se vogliamo citare Trotsky, è indubbio che Trotsky ebbe per un lungo periodo di tempo incertezze e oscillazioni sul terreno russo nel rapporto tra il bolscevismo e il menscevismo (fu un menscevico per un breve lasso di tempo, per un arco significativo di tempo si illuse -sbagliando- che fosse possibile trovare una forma di riconciliazione e di ricomposizione unitaria tra bolscevismo e menscevismo che invece divaricavano sempre di più). Al tempo stesso era colui che sul terreno delle posizioni politiche internazionali e della stessa concezione della rivoluzione russa non solo non aveva una posizione anche solo vagamente sospettabile di adattamento al centrismo, ma semmai superava in avanti in termini anche di comprensione dello sviluppo dialettico di quella rivoluzione alcuni elementi di limite e di contraddizione che erano presenti nel pensiero di Lenin. Lo dico per dire che lo sport, a lungo praticato, di costruire una specie di rivalità incomponibile tra le diverse figure più rappresentative di questa sinistra marxista internazionale è viziato da una profonda distorsione di metodo. E’ chiaro che ci furono delle divergenze tra i marxisti rivoluzionari, e anche diversi tempi di rottura col centro e con il centrismo, ma perché elemento comune di prospettiva non era semplicemente l’ortodossia dei principi ma la reale tensione verso il fine, la reale tensione verso la conquista del potere, tutte queste contraddizioni, che pur vi furono, si risolsero poi, storicamente parlando, attorno al comune processo costituente della nuova internazionale comunista. Ed è importante sottolineare questo perché per noi come sempre l’essenziale non è la personalità, la storia delle personalità e i loro singoli errori, l’essenziale è il programma: e proprio la comunanza del programma fu l’elemento ricompositivo di queste diverse personalità e al limite anche di queste diverse storie.

La battaglia per la III Internazionale: Il metodo del raggruppamento rivoluzionario

Naturalmente fu la guerra l’elemento di precipitazione progressiva sul terreno internazionale della rottura della sinistra marxista rivoluzionaria col centro. Dai primi anni del ‘900 la guerra incominciava ad essere un tema ricorrente nel dibattito dell’Internazionale per la ragione assai semplice che la guerra si avvicinava sullo sfondo della lotta per le colonie e delle contrapposizioni imperialistiche. I primi congressi della II

Internazionale di inizio ‘900 sono congressi di forte denuncia della guerra che si avvicina. Un po’ per pressione della base del movimento operaio, un po’ perché in base all’ortodossia formale dei principi spendere risoluzioni contro la guerra non recava gran danno e quindi si potevano fare tutte le dichiarazioni più roboanti del mondo (in alcuni casi anche come sottoprodotto della battaglia della minoranza marxista rivoluzionaria della II Internazionale). Diciamo che il grosso di questi congressi dell’Internazionale si pronunciò contro la guerra che si avvicinava. E forse il congresso che si pronunciò nei termini più coerenti, più radicali fu il congresso di Basilea nel 1912, quello più vicino -storicamente parlando – all’approssimarsi della guerra: là dove è chiara la denuncia della guerra futura come guerra imperialista, la necessità che il movimento operaio si mobiliti contro la guerra, la necessità che il movimento operaio approfitti dell’eventualità della guerra per affondare la borghesia, per conquistare il potere politico e realizzare la rivoluzione. Il problema è che quella era letteratura. Quando scoppiò la guerra quella letteratura si sciolse come neve al sole, e la politica reale dei partiti dell’Internazionale che già da tempo era scissa dalla teoria e dai principi manifestò sino in fondo la propria deriva. La socialdemocrazia tedesca vota i crediti di guerra il 4 agosto del 1914. Pochi giorni dopo il partito socialista belga che è un partito importante guidato da Vandervelde (un’autorità politica nell’Internazionale) spende Vandervelde all’interno del governo di guerra. Inizia a svilupparsi la pratica non solo di sostegno e di voto ai crediti di guerra, ma di collaborazione con il governo di guerra all’interno della cosiddetta Union sacré, Unione sacra della patria contro il comune nemico. E’ in questo momento che si sviluppa un salto politico nella battaglia della sinistra marxista rivoluzionaria per lo sviluppo della III Internazionale comunista. E’ in questo momento, ed è importante questo fatto perché molto spesso nella vulgata corrente si tende a pensare che la III Internazionale comunista sia stata semplicemente l’espressione della rivoluzione russa, oppure (nelle visioni più volgari) che l’Internazionale comunista sia nata come il braccio esecutivo diplomatico dei vertici del Cremlino per i propri interessi nazionali. In realtà ovviamente la rivoluzione russa avrà un’importanza decisiva per la costruzione e lo sviluppo della III Internazionale, ma la battaglia per la III Internazionale inizia nel 1914 con un articolo di Lenin pubblicato a novembre e poi soprattutto con la conferenza di Zimmerwald del 1915: quando non solo non era prevedibile una rivoluzione russa e tanto meno un governo Lenin nella Russia degli zar, ma anzi tutta l’Europa era attraversata da un’ondata sciovinista e patriottica e quando i rivoluzionari internazionalisti erano talmente pochi che -disse Lenin- potevano “stare tutti in una stessa automobile”. Ebbene ciò nonostante in quelle condizioni viene lanciata la battaglia per la III Internazionale. E viene lanciata sulla base di un giudizio storico: il fallimento definitivo della vecchia II Internazionale sia nella sua componente opportunistica di destra socialsciovinista sia nella sua componente storicamente centrista e kautskyana. L’esperienza di Zimmerwald è stata il trampolino di lancio, la fucina politica da cui ebbe origine la prospettiva costituente della III Internazionale. E credo sia stato estremamente indicativo il metodo con cui attraverso Zimmerwald, Lenin, Trotsky e Luxemburg hanno operato in relazione alla prospettiva della nuova internazionale. Cosa fu la conferenza di Zimmerwald? La conferenza di Zimmerwald, nel 1915, è la conferenza convocata da una serie di partiti della vecchia II Internazionale ostili alla guerra, con l’obiettivo fondamentalmente del “no” alla guerra e “sì” alla pace, “la pace senza annessioni” questo era lo slogan prevalente. La maggioranza di Zimmerwald non era rivoluzionaria, era pacifista. Lenin e Trotsky fanno fronte comune contro la guerra e per la pace, e quindi stanno in questo raggruppamento largo di forze che si contrappone alla guerra perché bene o male è un passo in avanti del movimento reale, è un elemento di aggravamento della crisi della II Internazionale. Ma non ci stanno sulla base di una posizione di adattamento al pacifismo, ci stanno con una loro presa di posizione autonoma come minoranza di Zimmerwald, che parla apertamente di contrapposizione alla guerra non in nome della pace, ma di contrapposizione alla guerra nella prospettiva della guerra civile e della rivoluzione. Ed è interessante questo metodo. In astratto si sarebbe potuto dire: “Facciamo la III Internazionale con tutti quelli che sono contrari alla guerra e per la pace”. Il ragionamento è opposto: “Unifichiamo tutti quelli che sono contro la guerra e per la pace, e all’interno di questa aggregazione larga di movimento reale contro la guerra sviluppiamo il raggruppamento rivoluzionario per la III Internazionale”. Ancora una volta sulla base di una linea di rigore strategico, di rigore programmatico, di demarcazione. E’ esattamente la continuità della linea marxista rivoluzionaria.

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