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Ecologia e capitalismo

L’economia ecologica. Introduzione



Pubblico qui pressoché inalterato un testo di quindici anni fa già comparso nella dispensa “Ecologia, movimenti verdi e capitalismo”, curata nel 1994 nell’ambito di un corso su “Marxismo ed ecologia” realizzato con Michele Nobile e Claudia Rosani per l’associazione Punto rosso di Milano. In questi quindici anni molta acqua è passata sotto i ponti. L’economia ecologica, allora pressoché sconosciuta in Italia, oggi è compresa nei curricula di diverse facoltà universitarie; è oggetto di libri, pubblicazioni periodiche, conferenze, dibattiti; ha trovato da tempo cittadinanza fra le persone informate (anche se più fra gli ambientalisti che fra gli economisti). Tuttavia questo testo, come introduzione ad alcune delle idee fondanti di questo approccio, regge la prova del tempo.
La novità più consistente intervenuta nel frattempo va sotto il nome di teoria della decrescita, che pretende di rifarsi a Nicholas Georgescu-Roegen e alla sua bioeconomia. Ma – è il mio parere – siamo davanti non tanto a una effettiva novità teorico-analitica, quanto a una innovazione di strategia comunicativa che ha un forte impatto ideologico e politico: il termine “decrescita”, introdotto da Serge Latouche qualche hanno fa, ha colpito l’immaginario fornendo una designazione positiva e “radicale” alla critica della crescita e della società presente, mescolando tuttavia elementi analitici validi e postulati ideologico-politici assolutamente discutibili. Ma questa è un altro argomento e ne parleremo un’altra volta.
(t.b., 4 ottobre 2009)








L’ECONOMIA ECOLOGICA. CENNI INTRODUTTIVI

di Tiziano Bagarolo



1. Che cos’è l’economia ecologica?

Una precisazione preliminare.
Ogni suddivisione delle scuole economiche contiene un margine di arbitrio. Ciò vale anche per la suddivisione adottata in questo seminario fra economia standard, economia ecologica ed ecomarxismo. Claudia Rosani, ad esempio, ha parlato nel suo intervento di tre scuole economiche principali: quella ortodossa “borghese”, quella neoricardiana e quella marxista. E’ una divisione che fa riferimento soprattutto al problema della teoria del valore e della distribuzione, e in questo senso è corretta. Se assumiamo altri criteri, ad es. l’analisi della crisi, allora dovremmo togliere Keynes dall’economia ortodossa e metterlo in un gruppo a parte fra i critici della stessa. Possiamo ovviamente utilizzare anche altre suddivisioni con riferimento ad altri criteri e ad altre problematiche.
Trattando di economia e ambiente la suddivisione qui proposta – economia standard, economia ecologica ed ecomarxismo – ha dalla sua alcune buone ragioni.
Con la dizione “economia standard” si indica ormai convenzionalmente la teoria economica ortodossa dominante. La denominazione approccio standard. o economia standard, è stata coniata da Nicholas Georgescu-Roegen che, come vedremo, va considerato il caposcuola dell’economia ecologica. L’approccio standard ai problemi ambientali qui [nella dispensa, ndtb] illustrato da Claudia Rosani è ancora quello largamente dominante.
Qualche dubbio può sorgere circa l’uso del termine “ecomarxismo” che designa sia lo specifico approccio di James O’Connor sia, meno abitualmente, gli approcci marxisti alla crisi ecologica e alle sue problematiche.
Si può parlare di “economia ecologica” a partire da una semplice constatazione: l’economia ecologia esiste. Si tratta di una terza posizione, per altro abbastanza eterogenea, che raggruppa studiosi di varia provenienza e di varia ispirazione i quali mettono in discussione l’approccio dominante da un punto di vista non marxista. Questa posizione ha già ricevuto diverse denominazioni. Quella che negli ultimi anni sta imponendosi è la denominazione di “economia ecologica”, che ha il pregio della immediatezza e che anche qui abbiamo adottato.
Come si può qualificare l’economia ecologica?
A mio parere, l’economia ecologica è oggi soprattutto un ambito di ricerca esterno e contrapposto al paradigma ortodosso o standard che dir si voglia.
Mi sembra invece prematuro parlare di un “nuovo paradigma”, come fanno alcuni (ad es. Enzo Tiezzi e Mercedes Bresso), ossia di un modello teorico organico e sistematico, benché esistano, evidentemente, alcuni tratti comuni nelle elaborazioni degli studiosi che si riconoscono in questo punto di vista. I tratti comuni che caratterizzano oggi l’economia ecologica, in estrema sintesi, mi sembrano fondamentalmente i seguenti:
1. le problematiche che privilegia: in primo luogo le relazioni economia-ambiente;
2. una critica radicale del paradigma economico ortodosso, o standard, che si articola in diversi punti: rifiuto della nozione formale di economia, rifiuto di concepire i processi economici come un sistema separato ed autosufficiente, approccio interdisciplinare scienze sociali e scienze naturali, critica della “razionalità economica” del mercato e della contabilità dei valori di scambio, ecc.;
3. alcune specifiche posizioni teoriche: importanza della dimensione entropica dei processi produttivi, valore analitico del principio di conservazione della massa e del principio di entropia, critica della crescita, inadeguatezza del sistema dei prezzi, incapacità dei mercato di considerare le generazioni future, critica dell’ottimismo tecnologico, importanza dell’incertezza, ecc.;
4. alcune proposte alternative di politica ambientale: regolamentazione diretta della produzione e non solo tramite strumenti di mercato, “stato stazionario” come obiettivo da realizzare, regolamentazione pubblica e controllo sociale dei beni comuni, tasso di sconto nullo o molto basso, metodi non monetari di contabilità economica, subordinazione della razionalità economica a una più ampia razionalità sociale ed ecologica, ecc.

Economia dell’ambiente ed economia ecologica.
Va detto che esiste una branca della scuola economica ortodossa che si denomina “economia dell’ambiente” la quale non va confusa con l’economia ecologica. L’economia dell’ambiente – che ha una sua associazione di categoria e una sua rivista, il “Journal of Environmental Economics and Management” – è nient’altro che un ramo dell’economia ortodossa. Ha carattere essenzialmente applicativo e affronta i cosiddetti “fallimenti” del mercato secondo il principio (illustrato in precedenza da Claudia Rosani) della estensione (“ricostruzione”) del mercato stesso e della “internalizzazione” delle esternalità ambientali. Si tratta insomma di una specializzazione nell’ambito dell’approccio standard per il quale gli aspetti propriamente fisici della produzione e le sue relazioni con l’ambiente non sono di pertinenza dell’economista, bensì di ingegneri e biologi.
L’economia ecologica invece – che dal 1989 ha anch’essa una associazione di categoria e una rivista, “Ecological Economics” – si contrappone all’economia dell’ambiente, rifiuta il paradigma ortodosso e afferma l’esigenza di un nuovo paradigma e di un nuovo metodo di ricerca che sia interdisciplinare e capace di integrare insieme gli aspetti ecologici, economici e sociali (variamente intesi dai vari autori).

Lo “spazio teorico” dell’economia ecologica.
La definizione “economia ecologica” è recentissima e non è ancora entrata stabilmente nell’uso. Tuttavia – questa e la mia opinione – è destinata ad avere fortuna perché individua uno “spazio teorico” reale. L’esistenza di questo spazio teorico è indicato dal rilievo che hanno assunto nel nostro tempo i problemi ambientali determinati dalle attività economiche delle società umane, ai quali non può dare risposte adeguate e credibili la teoria ortodossa per le sue radicali insufficienze di impostazione (sta accadendo qualcosa di simile a quello che accade con il keynesismo, dopo la grande crisi degli anni trenta). A mio parere, il marxismo avrebbe in astratto i requisiti per dare queste risposte; ma bisogna ammettere che la riflessione su questi problemi dei teorici marxisti è cominciata in ritardo ed è ancora sottosviluppata.
C’è anche un’altra ragione che spiega la nascita dell’economia ecologica in alternativa all’economia standard e a fianco del marxismo (in concorrenza con esso): il fatto che nelle odierne società capitalistiche c’è obiettivamente uno spazio culturale (ideologico, se si vuole) e sociale fra capitalismo e classe operaia, fra gli apologeti dell’ordine esistente da una parte e il soggetto sociale e politico anticapitalistico dall’altra. E’ lo spazio del riformismo verde o dei movimenti ambientalisti, come dimostrano la diffusione delle ideologie ecologiste e l’esistenza di movimenti e partiti verdi.
Ma c’è anche, a mio parere, un reale spazio scientifico per l’economia ecologica, ciò che la rende portatrice di elementi di conoscenza reale e ne fa qualcosa di più di una variante dell’economia ortodossa “borghese”: questo spazio teorico reale è quello, per dirla marxianamente, della “produzione in generale”, ossia il campo delle determinazioni metastoriche della produzione, comuni a tutte le forme sociali, intesa come modalità del rapporto fra uomo e natura.
Tuttavia sono pochi gli “economisti ecologici” che appaiono consapevoli di questa limitazione di campo. La distinzione marxiana fra “produzione in generale” e “modo capitalistico di produzione” non compare in genere nei teorici dell’economia ecologica, salvo le significative eccezioni di Karl William Kapp e Charles Perrings, che infatti dimostrano di avere una buona conoscenza delle idee di Marx (1). Gli autori appena citati sono anche quelli che, con Georgescu-Roegen, hanno fornito i contributi teorici più validi e interessanti di cui anche i marxisti devono fare tesoro (ne dirò qualcosa più avanti).
Negli studiosi in cui la distinzione di cui si diceva non è chiara, si rileva che la dimensione sociale della produzione o viene sottovalutata o viene distorta in senso idealistico (vedi ad es. Herman Daly e Mercedes Bresso).
Alcuni studiosi pongono abbastanza chiaramente il problema dei rapporti di proprietà, anche se non proprio quello dei rapporti di produzione (i soliti Kapp e Perrings). Costoro sono anche quelli più consapevoli che la conversione dell’economia nel senso della sostenibilità ecologica comporta uno scontro con gli interessi del capitale. In generale però gli “economisti ecologici” concepiscono i cambiamenti nelle strutture economiche o nel loro modo di funzionare come il prodotto quasi automatico della necessaria rivoluzione (o riforma) culturale e morale che deve intervenire nella società e degli individui, o per dir meglio nel loro “sistema di valori” di riferimento (ad esempio, è questa la convinzione di Nicholas Georgescu-Roegen, Kenneth Boulding, Herman Daly, Robert Costanza, Mercedes Bresso ecc.).
Se alcune misure proposte dall’economia ecologica sono giuste e concrete, e dunque condivisibili (ad esempio la lotta all’“usa e getta” o alle spese militari, le proposte a favore del riciclaggio e del risparmio energetico, ecc.), altre posizioni sono del tutto utopistiche e velleitarie, come l’idea di poter modificare i comportamenti delle imprese semplicemente facendo leva sulla consapevolezza dei consumatori e dei manager, gli uni e gli altri resi consapevoli delle conseguenze ambientali dell’utilizzo di certe merci invece di altre, di certe tecnologie produttive invece di altre, aiutati in questo da tutta una serie di “segnali”, di mercato e non, opportunamente orientati, come possono essere le etichette verdi per i prodotti (ecolabel), la certificazione ambientale per le imprese (ecoaudit), o un sistema di eco-tasse e di incentivi che modifichino le convenienze del mercato (2).


2. Precursori dell’economia ecologica.

Nella storia della scienza è abbastanza usuale che appena viene definito un nuovo punto di vista, subito si scopre che esso ha avuto moltissimi precursori. Questo è particolarmente vero per l’economia ecologica. In quanto corrente eretica che mette al centro della sua attenzione non tanto i prezzi, il valore e la distribuzione del reddito, bensì la dimensione fisica dei processi economici e le sue implicazioni, l’economia ecologica ha avuto in effetti numerosissimi precursori inascoltati fin dagli ultimi decenni del secolo scorso, fin dalla nascita dell’economia marginalistica e dell’approccio ortodosso che ha espulso dal suo orizzonte teorico non solo la dimensione sociale ma anche la dimensione fisica del processo economico, cioè le sue interconnessioni con l’ambiente, con la natura.
L’istruttiva storia dei precursori remoti dell’economia ecologica è raccontata in un libro uscito tre anni fa in italiano: Juan Martinez-Alier, Economia ecologica. Energia, ambiente, società, Garzanti, Milano 1991 (risale però al 1987 l’originaria pubblicazione in inglese del libro e al 1984 un primo abbozzo in spagnolo). Da Martinez-Alier veniamo a sapere che la natura entropica dei processi produttivi era già stata compresa e analizzata per la prima volta attorno al 1880 da vari studiosi: dal socialista ucraino esule in Francia Sergej Podolinskij(1850-1991), che ebbe in materia una corrispondenza con Marx (3); dal boemo Eduard Sacher (1834-1903); dall’urbanista scozzese Patrick Geddes (1854-1932); dal fisico tedesco Rudolf Clausius (1822-1888), cui si deve la nozione di entropia) e poi nei primi decenni di questo secolo dal fisico austriaco Leopold Pfaundler (1839-1920); dall’economista austriaco Josef Popper-Lynkeus (1838-1921), dal chimico inglese Frederick Soddy (1977-1956). Tuttavia i contributi di tutti questi studiosi (e di altri ancora) non hanno avuto alcuna influenza sulla evoluzione dell’approccio economico dominante. Al punto che i nomi di questi precursori risultano spesso del tutto sconosciuti anche agli studiosi che nel dopoguerra hanno ripreso lo stesso tipo di critiche e riproposto un punto di vista molto simile, l’analisi della dimensione fisica dei processi di produzione e delle sue implicazioni.

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Presenterò ora sommariamente alcune delle idee forti dell’economia ecologica facendo riferimento a tre studiosi che ho gia nominato sopra: a Karl Wiliiam Kapp (1910-1976) per la critica metodologica all’approccio dominante; a Nicholas Georgescu-Roegen (1906-1994) per l’analisi della natura entropica del processo economico; a Charles Perrings per la critica della strategia ambientale ortodossa e la proposta di una strategia alternativa.


3. Kapp: la reinterpretazione dei costi sociali.

Se è ammissibile operare un’inclusione a posteriori, allora Karl William Kapp va considerato uno dei più importanti rappresentanti dell’economia ecologica; in caso diverso dobbiamo considerarlo uno dei suoi più importanti precursori. Di origine tedesca, già collaboratore dell’Institut für Sozialforschung di Francoforte, emigrato in Svizzera nel 1933 e successivamente negli Stati Uniti, quindi dal 1965 al 1975 professore all’università di Basilea, Karl William Kapp è noto per un’opera precorritrice (mai tradotta in italiano) pubblicata nel 1950 con il titolo The Social Costs of the Private Enterprise, Harvard University Press, Cambridge (Mass.) e rieditata nel 1963 con un titolo lievemente modificato: The Social Costs of the Business Enterprise.
Centrale negli scritti di Kapp e la categoria dei “costi sociali” (4), già introdotta negli anni trenta dall’economista inglese Pigou, che egli reinterpreta in modo radicalmente diverso. Per Pigou, che indagava la possibilità di ottimizzare l’efficienza e il benessere economici, i costi sociali sono imperfezioni del funzionamento del mercato che sono superabili in quanto quantificati e ricompresi nei meccanismi del mercato stesso mediante l’assegnazione di un prezzo opportuno reale o virtuale. Per Kapp, invece, i costi sociali sono una conseguenza ineliminabile dell’economia capitalistica. Essi non sono necessariamente quantificabili. Soprattutto, essi pongono un problema di fondo del tutto eluso dalla internalizzazione proposta dai sostenitori dell’approccio ortodosso: la “razionalità economica” del mercato non è affatto tale. Da ciò discende la necessità di trovare nuove forme di razionalità economica in grado di fare i conti da una parte con le domande sociali di equità e democrazia e dall’altra con i vincoli dell’ambiente.

La critica metodologica.
Dal punto di vista metodologico radicale è la critica di Kapp all’approccio ortodosso. L’analisi del processo economico e delle sue relazioni con l’ambiente dell’economia ortodossa è del tutto inadeguata. Essa rappresenta il sistema economico come un sistema chiuso, delimitato sostanzialmente dal mercato (dalle relazioni monetarie, cioè dai valori di scambio e non dai valori d’uso) e a ciò corrisponde un giudizio di irrilevanza circa le retroazioni fra mondo fisico e sistema economico (la descrizione ortodossa delle relazioni fra il sistema economico e l’ambiente è casuale, incompleta e formale). Per Kapp, invece, occorre rovesciare questo metodo: è cruciale indagare il sistema economico come “sistema aperto”; la descrizione delle relazioni economia-ambiente dev’essere sistematica, completa e sostanziale e deve utilizzare gli strumenti concettuali appropriati, tratti dalle discipline ecologiche. Le relazioni economia-ambiente sono interdipendenti e dinamiche, caratterizzate da soglie, effetti non lineari e processi di causazione cumulativa; è perciò del tutto irrealistico l’approccio statico dell’equilibrio generale walrasiano (5).
Un altro tema centrale in Kapp è quello dei limiti del calcolo economico tradizionale e della necessità di nuovi strumenti. Dati i limiti intrinseci della razionalità economica del mercato e della contabilità monetaria, e necessario e irrinunciabile prevedere una pianificazione economica fondata su una contabilità non monetaria ma in termini reali. A questo proposito è necessario mettere a punto nuovi strumenti di valutazione economica incentrati sul valore d’uso e non sul valore di scambio: gli indicatori e gli standard ambientali possono svolgere questo ruolo diventando indicatori dei valori d’uso sociali (6).


4. Georgescu-Roegen: la natura entropica della produzione

Oggi è comunemente riconosciuto che il caposcuola dell’economia ecologica è stato l’economista americano di origine rumena Nicholas Georgescu-Roegen (1906-1994). Critico già negli anni trenta dell’approccio ortodosso della teoria del consumatore, negli anni sessanta formula una critica radicale della teoria della produzione di quello che egli ribattezza “approccio standard” contrapponendogli un punto di vista che egli definisce “bioeconomico” (7). I processi produttivi vanno studiati anche come processi fisici e biologici, come tutti i processi che avvengono nella biosfera. La tecnologia utilizzata dagli uomini nei processi produttivi non è che un’estensione della loro evoluzione biologica. La specie umana si è creata una dotazione di organi “esosomatici” (extracorporei) dai quali dipende ormai tanto quanto dai suoi organi “endosomatici” (corporei). Il mantenimento di questi organi extracorporei da un lato comporta la ricerca incessante delle risorse naturali necessarie per la loro conservazione e riproduzione, da un altro porta a continui conflitti all’interno della specie stessa per l’appropriazione di questi strumenti, delle risorse per mantenerli, della produzione eccedente che essi rendono possibile. E’ questa, come si intuisce, una reinterpretazione della nozione di lotta di classe che Georgescu-Roegen ritiene essere un dato ineliminabile dalla storia umana.
Anche ai processi economici in quanto processi fisici sono applicabili le usuali leggi fisiche, in particolare il principio di entropia, «la più economica delle leggi fisiche» secondo Georgescu-Roegen (8).
La funzione della produzione neoclassica, cioè la rappresentazione analitica che collega un insieme dato di input al massimo output ottenibile con la tecnologia data, trascura proprio il principio di entropia e con ciò si preclude la possibilità di fornire una visione adeguata del processo di produzione, di cui si limita a fornire una spiegazione in termini statici della distribuzione del prodotto fra gli input che concorrono alla produzione.
Dalla funzione della produzione l’approccio standard ricava una concezione del processo economico come “flusso circolare”, ossia di un processo circolare autoalimentantesi potenzialmente all’infinito in quanto non soggetto a perdite ma solo a incrementi.

La natura entropica dei processi produttivi.
Questa concezione e quanto mai lontana dalla realtà. Il processo economico dal punto di vista fisico non è ciclico ma unidirezionale. Nella produzione l’uomo non può creare né materia né energia, ma solo produrre delle trasformazioni. Egli modifica per adattarli ai suoi bisogni i materiali prelevati dall’ambiente e a questo scopo si serve dell’energia disponibile (o “libera”). Alla fine del processo le medesime quantità di materia e di energia vengono restituite degradate all’ambiente, cioè in forme non più utilizzabili per un nuovo ciclo di produzione e consumo.
Per ciò che riguarda la materia si può pensare a un recupero degli elementi di scarto e di quelli dispersi nell’ambiente, per riutilizzarli nei processi produttivi dopo un opportuno trattamento (riciclaggio). Per il secondo principio della termodinamica (il principio di entropia), questa operazione non è affatto possibile per l’energia. L’entropia si può anche intendere come «l’indice della quantità di energia non disponibile in un dato sistema termodinamico in un dato momento della sua evoluzione» (9). In ogni trasformazione energetica si ha un aumento di entropia, ossia una degradazione qualitativa dell’energia presente nel sistema, una parte della quale diviene indisponibile a compiere un lavoro in quanto si dissipa come calore. In altre parole, in ogni processo fisico si ha una “perdita” reale che corrisponde all’incremento dell’entropia. Il sistema in cui ha luogo questo processo subisce una trasformazione che non è spontaneamente reversibile: esso cioè non può ritornare alla configurazione di partenza, salvo un intervento esterno, ad esempio un flusso aggiuntivo di energia.
In verità, qualcosa di simile avviene anche per ciò che riguarda la materia. E’ vero che gli atomi di materia non si distruggono, ragione per cui possiamo cercare di recuperarli con opportuni trattamenti di riciclaggio che riconcentrino gli atomi dispersi e separino quelli che si sono mescolati. Ma il riciclaggio richiede a sua volta una spesa di energia disponibile e di materia non di scarto e produce a sua volta dispersione di scarti di materia e dissipazione di energia. La spesa di riciclaggio è tanto più elevata quanto più dispersa (disordinata) e la materia da recuperare. Pertanto, il costo del riciclaggio cresce al crescere della materia trattata. Da un certo punto in avanti, questo costo in termini di degradazione di materia utile supera il guadagno di materia di scarto recuperata. Perciò, anche disponendo di una fonte illimitata di energia (ad es. la fusione nucleare), il riciclaggio della materia non potrebbe mai essere illimitato. Il principio di entropia (passaggio dall’ordine al disordine, dalla disponibilità alla indisponibilità) vale dunque anche per la materia (per Georgescu-Roegen ciò costituisce il “quarto principio” della termodinamica).

Il problema dei residui della produzione.
L’esaurimento delle risorse prelevate dall’ambiente è solo uno dei modi in cui le attività umane agiscono sull’ambiente modificandolo. Un altro modo, che è all’origine di problemi ambientali di non facile soluzione, è lo smaltimento nell’ambiente esterno di quanto è stato in precedenza prelevato ed utilizzato. Va osservato che, in base alle leggi di conservazione della massa e dell’energia, le quantità in gioco nei due casi sono globalmente uguali in termini fisici.
Scarti e rifiuti rigettati nell’ambiente hanno l’effetto di modificarlo e di interferire con il funzionamento degli ecosistemi nei modi più diversi (inquinamento, eutrofizzazione, degrado di specifici biotopi, modificazioni nella composizione chimica dell’atmosfera, avvelenamento delle catene alimentari, estinzione di alcune specie, ecc.) e tutto questo, a sua volta, può ripercuotersi sulle attività produttive in modi imprevedibili, a distanza di tempo e di luogo (le piogge acide, ad esempio, causate dalle emissioni della combustione degli idrocarburi, riducono la produttività biologica di laghi, foreste e campi coltivati, anche a migliaia di chilometri di distanza dalle fonti delle emissioni). Anche i limiti di ricezione dell’ambiente costituiscono quindi un vincolo alla crescita economica.
Più in generale, i cambiamenti indotti nell’ambiente dal prelievo delle risorse e dal rigetto dei residui della produzione determinano un cambiamento più generale di natura irreversibile nel sistema economia-ambiente, imprevedibile in molti sui aspetti. Ciò introduce un elemento radicalmente nuovo nelle nostre considerazioni: l’incertezza del futuro, che rende impossibile formulare previsioni certe circa l’evoluzione futura del sistema. E’ possibile però farsi un’idea dei limiti che le attività produttive non potranno in nessun caso superare.

Il limite delle risorse e le generazioni future.
Riassumendo: dal punto di vista fisico la produzione è costituita da unatrasformazione continua di bassa entropia in alta entropia, essa cioè comporta una perdita irrevocabile, irrecuperabile. Poiché le risorse materiali ed energetiche del pianeta sono limitate, qualsiasi produzione che operi con risorse non rinnovabili o oltre i limiti di riproduzione di quelle rinnovabili è destinata alla lunga ad esaurire le sue stesse basi e dunque è condannata a declinare e a perire. Anche evitando ogni spreco e utilizzando al meglio le risorse esistenti di minerali e di energia, e anche scoprendone di nuove (come pure è giusto cercare di fare) la specie umana non fa che dissipare progressivamente la dotazione – limitata – di bassa entropia (cioè di strutture “ordinate” e utili di materia e di energia) del pianeta.
Ciò significa, per Georgescu-Roegen, che alla lunga non solo non è sostenibile un’economia che cresce in modo esponenziale, ma non lo è neppure un’economia stabile, cioè la cosiddetta crescita zero, anzi non lo è qualsiasi economia che non contempli un utilizzo decrescente delle risorse esauribili (10).
Dato il punto in cui è giunta la specie umana, il problema che ci sta di fronte è proprio quello di comprendere che cosa si debba intendere, in concreto, con l’espressione “alla lunga”: decenni, secoli o millenni? Su questo punto Georgescu-Roegen non è catastrofista come il rapporto Meadows. Tuttavia egli è fermamente convinto che occorre lavorare da subito per invertire le tendenze in atto.
Dalla termodinamica del non-equilibrio sappiamo che un sistema aperto (che scambia materiali ed energia col proprio ambiente) può conservarsi in stato stazionario solo in modo approssimativo, entro condizioni piuttosto ristrette e per un periodo di tempo limitato. Questo vale anche per l’economia umana nella biosfera; lo stato stazionario è possibile, ma con l’avvertenza che «il miracolo non può durare per sempre». Essendo in definitiva limitata la dotazione di bassa entropia su cui la specie umana può contare, non basta chiedersi «quanti uomini può sostenere il pianeta»; occorre chiedersi: «quanti uomini per quanto tempo».
Ne deriva che «uno dei piu importanti problemi ecologici per il genere umano e, quindi, il rapporto fra qualità della vita di una generazione e quella di un’altra, più specificamente la distribuzione del patrimonio del genere umano fra tutte le generazioni».
Secondo Georgescu-Roegen «l’economia [di mercato] non può nemmeno sognare di risolvere questo problema», dal momento che essa amministra le risorse conferendo ad esse una valutazione monetaria mediante l’equilibrio tra l’offerta e la domanda sul mercato, ma «le generazioni future non sono presenti, semplicemente perché non possono esserlo, sul mercato odierno». In effetti, «il solo modo di proteggere le generazioni future, perlomeno dal consumo eccessivo di risorse durante l’attuale abbondanza, è quello di rieducarci a provare una certa simpatia verso gli esseri umani futuri, così come siamo arrivati a interessarci del benessere dei nostri “vicini” contemporanei» (11).

Un programma bioeconomico minimale.
Che cosa ciò debba implicare, in concreto, Georgescu-Roegen lo riassume in quello che egli definisce «un programma bioeconomico minimale» di misure urgenti per invertire la rotta, che riassumiamo qui per titoli:
– deve essere proibita la produzione di tutti i mezzi bellici, e non solo la guerra, in quanto spreco criminale di risorse preziose;
– con le risorse cosl risparmiate occorre aiutare il terzo mondo ad arrivare a un livello di vita buono (non lussuoso);
– occorre gradualmente ridurre la popolazione mondiale al livello che può essere sostenuto dalla sola agricoltura organica;
– va attivamente evitato ogni spreco di energia, anche mediante una rigida regolamentazione;
– «dobbiamo curarci dalla passione morbosa per i congegni stravaganti»;
– «dobbiamo liberarci anche della moda»;
– occorre produrre beni durevoli e riparabili e rifiutare l’“usa e getta”;
dobbiamo liberarci della “circumdrome del rasoio”, che consiste nel radersi sempre più in fretta per avere tempo per lavorare a una macchina che ci consenta di raderci ancora più in fretta, e così via all’infinito, e cercare invece di avere tempo libero da impiegare con intelligenza.
Queste proposte suonano provocatorie e paradossali per la teoria ortodossa e per l’ideologia corrente; il sistema economico esistente si muove infatti nella direzione opposta. Con Georgescu-Roegen la critica alla ideologia della crescita e alla teoria economica ortodossa raggiunge un rigore e una coerenza senza precedenti (12).


5. Perrings e la critica della “soluzione di mercato”.

Docente a Auckland (Nuova Zelanda) [ora all’università dell’Arizona (USA), ndtb] Charles Perrings è membro del comitato di redazione della rivista “Ecological Economics”, edita dall’International Society of Ecological Economics. Egli è dunque un autorevole rappresentante della scuola dell’economia ecologica.
In un saggio tradotto due anni fa in italiano (13) Perrings ha proposto un modello euristico delle relazioni dinamiche economia-ambiente che a me è parso una delle cose più valide lette in questo campo (14).
Perrings parte dalle condizioni fisiche della produzione che egli descrive in termini formali con un modello alla Sraffa opportunamente modificato. Egli non considera solo la “produzione di merci a mezzo di merci” bensì l’insieme dei processi interdipendenti che compongono il sistema globale economia-ambiente. Perrings assume esplicitamente che si tratti di un sistema termodinamicamente chiuso, per il quale cioè valgono i principi di conservazione della massa e di degradazione dell’energia. Dal primo discende che il sistema globale ha natura evolutiva, che la sua struttura cambia nel tempo in modo irreversibile in seguito ai cambiamenti ambientali causati dai prelievi e dai residui della produzione (scarti e investimenti). Dal secondo consegue l’impossibilità di riciclo completo, ovvero l’esistenza di unascarsità assoluta delle risorse.
Nella seconda parte Perrings introduce il ruolo dei prezzi e dei diritti di proprietà. Dimostra che il sistema dei prezzi non svolge solo il ruolo di allocatore delle risorse, come nel modello ortodosso di equilibrio economico generale, ma riflette anche i conflitti sociali sulla distribuzione dei prodotti. Dimostra inoltre l’infondatezza delle conclusioni tradizionalmente ricavate su tali basi, in particolare circa l’efficienza della “soluzione di mercato” dei problemi ecologici.
Con la dizione “soluzione di mercato” Perrings si riferisce alla politica ambientale della teoria ortodossa che fa perno sui classici meccanismi del mercato: il sistema dei prezzi e l’allocazione dei diritti di proprietà sulle risorse.
Secondo Perrings, l’economia di mercato non è in grado di autoregolarsi e di risolvere i problemi ambientali legati allo sviluppo. Pur non proponendo la fuoriuscita dai meccanismi mercantili, avanza un insieme di proposte che vanno nella direzione diametralmente opposta alla “soluzione di mercato” : adozione di vincoli quantitativi, e non di prezzo, al livello delle attività economiche; adozione del principio della proprietà comune delle risorse e del principio di responsabilità privata per l’utilizzo dell’ambiente. Si tratta di un lavoro molto stimolante che ha il merito di considerare l’intreccio fra l’aspetto materiale e quello sociale delle attività economiche (15). Del complesso lavoro di Perrings ci soffemiamo ora solo su alcuni aspetti: il paradosso dello sviluppo, la critica della soluzione di mercato, le sue proposte alternative.

Il paradosso dello sviluppo.
Il modello globale di Perrings comprende sia i processi economici sia i processi ambientali. Il confine fra i primi e i secondi, cioè fra l’economia e il suo ambiente – e questo é un punto interessante di questa analisi – è dato dal fatto che un processo sia o no sotto il controllo umano (16).
L’economia puo adattarsi in due modi ai vincoli del suo ambiente:
1. mediante la regolazione del livello di utilizzazione delle proprie capacità produttive, ossia facendo in modo che le attività economiche non superino i vincoli posti dall’ambiente, data la tecnologia;
2. oppure mediante il cambiamento tecnologico controllato, cioè cercando di allentare i vincoli ambientali estendendo il controllo umano sulle risorse e sui processi ambientali (17).
La prima opzione, tipica di molte comunità umane “primitive”, presuppone un’attitudine passiva verso l’ambiente e un conservatorismo tecnologico che possono spiegare la longevità delle strutture economiche e sociali di molte comunità “primitive”, ma anche la loro vulnerabilità di fronte a mutamenti ambientali improvvisi.
La seconda opzione invece, sviluppata al massimo grado con il capitalismo, presuppone un’attitudine aggressiva verso l’ambiente. E’ l’opzione che sta alla base di ogni processo di sviluppo economico. Il processo di sviluppo economico comporta l’estensione qualitativa e quantitativa della sfera delle risorse e dei processi dell’ambiente assoggettati al controllo umano, che vengono inclusi progressivamente nella sfera dell’economia (18).
Nell’economia capitalistica il limite del controllo è dato dai settori inclusi nel mercato, le cui dinamiche sono orientate dai segnali del sistema dei prezzi. Il cambiamento tecnologico è nel capitalismo il principale meccanismo di controllo del sistema globale economia-ambiente in quanto modifica la combinazione di risorse presenti al fine di modificare le risorse future. Ciò rende possibile lo sviluppo (che è un aumento di controllo sulle risorse del globo), ma tanto più lo sviluppo avanza tanto più esso diventa impossibile.
E’ quello che Perrings chiama “il paradosso dello sviluppo”: «Affinché il cambiamento tecnologico sia in grado di allentare i vincoli ambientali allo sviluppo fisico delle economie umane, è necessario estendere l’ambito del controllo umano, cioè immettere nuove risorse nella produzione dei beni economici. La chiave delle sviluppo economico sta nel rendere commerciabili nuove aree ma quando l’ambito del controllo umano diviene prossimo al limite, la condizione di conservazione della massa impone un vincolo sempre più rigido all’espansione fisica dell’economia. Quindi, si ha il paradosso dello sviluppo: lo sviluppo può continuare a condizione che impariamo a controllare le risorse del globo, ma se impariamo a controllare le risorse del globo, lo sviluppo non sarà più possibile» [p. 65].
Il paradosso dello sviluppo è un argomento fortissimo contro l’“ottimismo tecnologico”, vale a dire contro la convinzione che i problemi ambientali possano sempre essere risolti semplicemente investendo di più nella ricerca e nel cambiamento tecnologico. L’esistenza di una scarsità assoluta delle risorse, che discende direttamente dal secondo principio della termodinamica (ovvero la natura entropica dei processi economici), ci dice che questa convinzione è del tutto infondata

La critica della “soluzione di mercato”.
Uno dei motivi di maggiore interesse del lavoro di Perrings è la sua critica della “soluzione di mercato” dei problemi ecologici (19) (fondamentalmente i problemi dell’esaurimento delle risorse e dello smaltimento dei residui della produzione).
La soluzione di mercato si impernia su due meccanismi principali:
1. l’attribuzione di un prezzo alle risorse “fuori mercato”; in tal modo gli usuali meccanismi di mercato dovrebbero poter tener conto sia dei cosiddetti “effetti esterni” sia sottrarre allo sfruttamento irrazionale e indiscriminato le risorse scarse;
2. la privatizzazione dei beni comuni, nel presupposto che la proprietà di una risorsa implichi il controllo su di essa, e che questo sia l’unico modo per sottrarla allo sfruttamento indiscriminato e sottometterla a una valutazione economica razionale.
Il tema dei beni comuni ha una lunga storia nel dibattito ecologico. E’ stato sollevato nel 1968 da un articolo su “Science” del biologo Garrett Hardin, The Tragedy of the Commons (la tragedia dei beni comuni). Nell’articolo, ricorrendo a una parabola storicamente poco attendibile, si argomenta che solo la proprietà privata delle risorse può preservarle da un degrado altrimenti inevitabile.
Perrings confuta efficacemente questa tesi, distinguendo fra proprietà e possesso e fra res nullius e res pubblica.
Ai fini del controllo di una risorsa ciò che conta è il possesso, cioè la sua disponibilità reale, non il diritto di proprietà in quanto tale. La regolazione della proprietà e del possesso deve perciò uscire dalla contrapposizione tra proprietà comune e proprietà privata. Proprietà comune non significa necessariamente libero accesso alla risorsa (intesa dunque come res nullius, cosa di nessuno), ciò che potrebbe in effetti provocarne l’esaurimento o il degrado. Proprietà comune può e deve significare regolazione sociale dell’accesso ad essa da parte della comunità (la risorsa va dunque intesa come res publica, bene pubblico, cioè di tutti). In realtà, l’esperienza storica dimostra che non solo la proprietà pubblica, ma anche la proprietà privata delle risorse naturali ha bisogno di precisi vincoli e regole di utilizzazione per impedire il degrado.

Una strategia ambientale alternativa
Una strategia ambientale alternativa deve essere basata sulla ricerca e la conservazione dello stato stazionario, da intendere però non con riferimento all’economia e alla popolazione umana, bensì con riferimento al sistema globale economia-ambiente (secondo il mio parere, più che “stato stazionario” questa soluzione potrebbe essere più propriamente detta “condizione omeostatica”, o equilibrio globale).
Perrings fa osservare che la soluzione di mercato «è storicamente unica». Le culture delle comunità “primitive”, ad es., in genere scoraggiano o proibiscono di apportare modifiche strutturali all’ambiente per evitare (consapevolmente o meno questo è secondario) di distruggere i suoi meccanismi omeostatici.
Nelle società tecnologicamente evolute lo stato stazionario implica l’invarianza di certi parametri fisici della produzione tali che essa sia compatibile nel lungo periodo con le capacità dell’ambiente di rigenerazione delle risorse e di assorbimento dei rifiuti.
Perrings indica anche alcuni principi che dovrebbe ispirare una strategia ambientale altemativa alla soluzione di mercato. Questi principi sono:
1. il principio della proprietà comune delle risorse: i privati possono essere ammessi a sfruttare le risorse ambientali comuni a condizione di riflettere gli interessi della collettività; la forma giuridica con cui questo può essere realizzato potrebbe essere la concessione onerosa e commerciabile di diritti di usufrutto a scadenza prefissata;
2. il principio della responsabilità privata in materia di effetti sull’ambiente delle attività economiche; si tratta si sviluppare in modo coerente la linea della responsabilità oggettiva e il principio “inquinatore-pagatore”;
Il controllo sociale degli effetti “esterni” delle attività economiche può includere incentivi e disincentivi fiscali, ma non deve escludere anche restrizioni quantitative e qualitative.
Perrings avanza anche una proposta concreta per prevenire i danni all’ambiente di maggiore gravità. Egli propone l’adozione della cauzione ambientale(environmental bond), una sorta di “tassa” per l’utilizzo delle risorse ambientali pari al costo sociale che si verificherebbe qualora il bene venisse restituito degradato. La cauzione ha lo scopo di incentivare gli utilizzatori privati ad adottare preventivamente comportamenti rispettosi dell’ambiente. Essa è utile in tutti quei casi in cui la probabilità del danno è molto incerta e risulta difficile rilevarlo a posteriori.
Con la cauzione la collettività si preoccupa di incassare in anticipo il risarcimento per il danno eventuale. La cauzione ha inoltre l’effetto di scoraggiare l’intrapresa di attività particolarmente rischiose.
(29 aprile 1994)


Note

1) La distinzione menzionata sopra è implicita nell’approccio “istituzionalista” di Karl William Kapp. Secondo Kapp l’oggetto dell’economia non è una astratta sfera dell’agire umano soggetta a leggi universali, come pretende l’economia ortodossa, bensì una specifica forma di economia fondata sui valori di scambio e la ricerca privata del massimo profitto. L’economia stessa non va concepita come un sistema chiuso delimitato dalle relazioni monetarie che hanno luogo sul mercato, bensì come parte di un determinato sistema sociale che a sua volta interagisce con i sistemi naturali in cui è inserito.
In Charles Perrings la distinzione è invece esplicita Egli scrive: «Io non inizio con la produzione di merci, che costituisce il punto di avvio quasi universale [delle diverse scuole economiche]; ma inizio con la produzione in generale, riferendomi alle trasformazioni materiali intraprese da tutti gli agenti del sistema, indipendentemente dalla loro specie: ciò rappresenta il più alto livello di astrazione. Non propongo l’idea che ogni sistema di produzione del mondo reale non sia specifico del suo tempo e del suo luogo, ma piuttosto che sia utile considerare gli elementi comuni ai diversi sistemi di produzione» (C. Perrings, Economia e ambiente, Etaslibri, Milano 1992, p. 10). Perrings cita inoltre facendola propria la definizione della produzione data da Marx nell’Introduzione del 1857 ai Grundrisse (p. 106), scritto che viene chiosato estesamente con acutezza (pp. 106-7).

2) Su tutto questo si puo vedere la rassegna contenuta nel libro di Mercedes Bresso, Per un’economia ecologica, Nuova Italia Scientifica, Roma 1993.

3) Su Sergej Podolinshj, la sua corrispondenza con Marx e i commenti di Engels si veda anche: Tiziano Bagarolo, Marx-Engels-Podolinskij: una traccia teorica perduta? in “Giano”, n. 10, aprile 1992, con interventi di Laura Conti, Giorgio Nebbia, Giuseppe Prestipino e Gianfranco Pala; Giancarlo Zinoni, Il “socialismo fisico” di Podolinskij, in “Capitalismo natura socialismo”, n 5, luglio 1992; Mauro Borromeo, Podolinskij, un intellettuale organico, in “Quaderni di stona ecologica”, n. 1, dicembre 1991 (nello stesso fascicolo della rivista è pubblicato anche lo scritto di S. Podolinskij ll socialismo e l’unità delle forze fsiche), e Mauro Borromeo, I populisti russi e l’economia energetica, in “Quaderni di storia ecologica”, n. 3, aprile-giugno 1993.

4) Scrive Kapp: «Il termine costi sociali si riferisce a una grande varietà di elementi di costo. Intatti, per gli scopi della nostra indagine, il termine indica tutte le perdite dirette e indirette sopportate da terzi o dalla collettività per effetto delle attività economiche di soggetti privati Queste perdite sociali possono riflettersi in danni alla salute umana: possono esprimersi come distruzione e deterioramento di valori patrimoniali o nella perdita di ricchezze naturali; possono anche manifestarsi nella perdita di valori meno tangibili. In quanto strumento d’analisi il concetto non ha una connotazione quantitativa; risponde al suo fine se ci aiuta a cercare e a rivelare una consistente frazione delle perdite sociali di produzione per le quali né le leggi né le consuetudini hanno ancora stabilito una adeguata responsabilità del produttore privato» (K. W. Kapp, The Social Costs of the Private Enterprise, Harvard University Press, Cambridge (Mass.), 1950, p. 13).

5) «La spiegazione e il giudizio sui cambiamenti del processo economico (nel tempo e nello spazio), e quindi del sistema di relazioni che lo legano all’ambiente fisico e sociale, costituiscono secondo Kapp lo specifico oggetto dell’economia» (Calafati nell’Introduzione a Kapp, 1991, p. xix).

6) Vedere il saggio Gli indicatori ambientali come indicatori di valori d’uso sociali, in particolare laddove si fa esplicito riferimento alle indicazioni di Marx e Engels per una gestione economica fondata sui valori d’uso nel sistema socialista sviluppato (pp. 143-44) da notare che Kapp è convinto che «in seguito alla pressione del deterioramento ambientale e dei pericoli derivanti dallo sviluppo economico non regolato e dalla tecnologia nello stadio avanzato della società capitalistica industriale… alcuni elementi del modo di produzione socialista si potrebbero radicare nell’economia capitalistica basata sui valori di scambio» e ciò potrebbe costituire uno dei modi in cui ii modo di produzione capitalistico si trasforma gradualmente, anche se non in modo indolore, nel modo di produzione socialista (p. 145).

7) Secondo Georgescu-Roegen «la sopravvivenza dell’uomo […] è un problema né solo biologico, né solo economico, ma bioeconomico» (N. Georgescu-Roegen,Energia e miti economici, Boringhieri, Tonno 1982, p. 59).

8) «La legge dell’entropia è la radice principale della scarsità economica. In un mondo in cui tale legge non fosse operante, la medesima energia potrebbe essere continuamente riutilizzata a qualsiasi velocità di circolazione desiderata, e gli oggetti materiali non si logorerebbero mai […]. Nel nostro mondo tutto ciò che ha per noi qualche utilità (desiderabilità) si compone di bassa entropia. E’ per tali motivi che il processo economico, in tutte le sue componenti, è entropico». Citato da C. Perrings, Economia e ambiente, Etaslibri, Milano 1992, p. 20.

9) N. Georgescu-Roegen, op. cit., p. 29.

10) «In un ambiente finito non solo la crescita, ma nemmeno uno stato di crescita zero, anzi, addirittura uno stato di contrazione che non converga verso l’annichilimento, può esistere indefinitamente» (N. Georgescu-Roegen, op. cit., p. 55).

11) N. Georgescu-Roegen, op. cit. pp. 67-68.

12) N. Georgescu-Roegen, op. cit. pp. 74-75.

13) C. Perrings, Economia e ambiente, Etas libri, Milano 1992.

14) I riferimenti di Perrings sono soprattutto a Georgescu-Roegen, agli economisti classici e a Marx.

15) Perrings opera chiaramente la distinzione fra produzione in generale ed economia di mercato (capitalistica); fa notare anche come quest’ultima sia una soluzione storicamente unica al problema, che è di ogni società umana, di adattarsi al proprio ambiente e di controllarlo. Inoltre adotta uno schema interpretativo delle dinamiche del sistema chiaramente ispirato a quello marxiano della dialettica forze produttive-rapporti di produzione.

16) «Il limite del controllo umano segna il confine fra l’economia e il suo ambiente» (Calafati, nell’Introduzione a Perrings, 1992, p. xiv).

17) Così viene definito il cambiamento tecnologico controllato: «Il cambiamento tecnologico controllato cerca di modificare la combinazione di risorse disponibili per il sistema in periodi futuri variando la loro combinazione al presente«» (Perrings, op. cit., p. 57).

18) «Se un vincolo ambientale stringente non deve causare un rallentamento del tasso fisico di crescita dell’economia, una maggior quantità di risorse deve essere sottoposta al controllo economico» (ivi, pp. 64-65).

19) Nel corso degli anni ottanta in sintonia con le tendenze neoliberiste, si è affermata una concezione liberista estrema in materia di problemi ambientali i cui capisaldi sono i seguenti:
– la sovranità dell’individuo (del consumatore),
– la sacralità della proprietà privata,
– il predominio del presente sul futuro (saggio di sconto positivo),
– l’ottimismo tecnologico (lo sviluppo tecnico ci darà le soluzioni),
– la mitizzazione del mercato (come mezzo per garantire l’efficienza).
La sovranità dell’individuo si fonda sulla assunzione che le generazioni future sappiano comunque badare a se stesse, ma ciò non è più sostenibile quando nel presente si possono adottare decisioni cruciali di natura irreversibile che possono limitare drasticamente le possibilità disponibili per i posteri.
La sacralità della proprietà privata si fonda sulla convinzione che i beni comuni vadano soggetti a forme di sovrasfruttamento (Hardin), ma questa tesi si fonda sulla confusione fra res nullius e res pubblica; sia la proprietà privata delle risorse naturali sia quella pubblica, in realtà, hanno bisogno di precisi vincoli e precise regole di utilizzazione per impedire il degrado.
Il predominio del presente sul futuro si esprime con il tasso di sconto positivo.
L’ottimismo tecnologico (ad es. Beckermam) è l’atteggiamento che confida che il progresso tecnico sarà sempre in grado di trovare succedanei alle risorse che via via diventano più scarse e che bastano i meccanismi di mercato a garantire questa successione: l’una e l’altra cosa essendo invece in dubbio.
Il liberismo rifiuta di riconoscere allo Stato un’ottica temporale di lungo periodo più adeguata di quella dei singoli; esso ritiene che la massimizzazione del benessere individuale sia un criterio più che adeguato per garantire anche nel lungo periodo la miglior scelta di allocazione intertemporale delle risorse e per evitare i problemi ambientali futuri.
Afferma Perrings: «Questa combinazione di liberalismo economico e di ottimismo tecnologico è sfociata in una strategia ambientale fondata sulla prospettiva privata nei riguardi del tempo, sulla rinuncia alla responsabilità collettiva per il futuro, e sulla negazione dell’importanza dei vincoli posti dalla disponibilità delle risorse in qualsiasi sistema di riferimento temporale significativo» (p. 144).




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