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Dibattito internazionale


La rappresentazione mediatica dei comunisti e delle loro  idee ricalca unanimamante gli stereotopici  storici dell’ ideologia borghese secondo  varianti che dipendono   dal contesto di riferimento: politico, economico, culturale.
I più comuni, lasciando perdere le volgarizzazioni populiste ( i comunisti sono tutti vagabondi, incapaci, inetti ecc. ), ruotano attorno a due assi ideologici di riferimento..
Il primo è che i comunisti non esistono più  ma paradossalmente ( quando fa comodo ) governano in Cina, a Cuba, in Venezuela e in Italia tramite i sindacati. L’altro che il comunismo è un’utopia  (cioè una cosa irrealizzabile) che inevitabilmente , fatto salvo le migliori intenzioni, una volta al governo diventa una dittatura liberticida e antipopolare.
Ergo, il miglior sistema è l’economia di mercato con tutti i limiti e i difetti che essa comporta, ed è comunque ,oggettivamente, il sistema più prossimo alla  natura umana.
Naturalmente i comunisti esistono e sono tanti in tutto il mondo ma non suscitano l’attenzione delle masse in quanto pesa su di loro la sconfitta dello stalinismo e di sua sorella la socialdemocrazia, considerate ancora nell’immaginario collettivo ( e dalla propaganda ) come la realtà storica del comunismo, mentre al contrario esse hanno rappresentato e operato concretamente per la sconfitta dei comunisti e dei movimenti operai e popolari in tutto il secolo scorso.
Insomma i comunisti hanno perso una battaglia, una lunga battaglia conclusasi simbolicamente con la caduta del muro di Berlino più di venti anni fa e devono lentamente risalire la china e riconquistare la fiducia delle masse con un lungo e paziente lavoro politico. 
La fase attuale dei movimenti e delle organizzazioni comuniste nel mondo è di grande frammentazione; non si tratta  di divisioni  ideologiche , sebbene nel dibattito in corso a volte sembrino tali, ma assolutamente concrete e di carattere tattico sul: Che fare ?
Insomma, rispecchiano la frammentazione delle lotte operaie e popolari nel mondo a causa della mancanza di un’organizzazione internazionale capace di unificarle su una base programmatica comune. Anche se la coscienza di questa necessità è condivisa non lo sono i metodi per  metterla in pratica.
Questa pubblicazione è un contributo alla conoscenza del dibattito internazionale in corso all’interno delle varie organizzazioni comuniste; non rispecchia perciò nei particolari la politica del PCL, che ne condivide però l’analisi generale di fase e le essenziali priorità dei rivoluzionari :

Cellula operaia PCL Forlì Cesena 

Per una società senza stati e senza classi.
Gli Internazionalisti (Tendenza Comunista Internazionale)


“Sì, c’è la lotta di classe, ma è la mia classe, la classe ricca, che sta facendo la guerra. E la stiamo vincendo…”
Lo ha dichiarato il miliardario Warren E. Buffett al New York Times, nel novembre 2006. Due anni prima della cosiddetta “crisi dei subprime”, che ha fatto scoppiare la bolla finanziaria e, con essa, gran parte della fiducia neoliberista. La bancarotta di alcuni istituti finanziari (con nomi divertenti come “Fannie Mae” o “Freddie Mac”) si è rivelata il preludio a un caos di proporzioni titaniche. Per scongiurare il collasso totale del sistema finanziario, è stato necessario mettere a punto “pacchetti di salvataggio” miliardari e garanzie statali delle passività……………………

Da allora, uno dopo l’altro, gli esperti hanno decretato la fine della crisi, ma sono stati costantemente smentiti da una serie di eventi. La situazione sta peggiorando. La “crisi dei subprime” si è evoluta in una “crisi bancaria”, che a sua volta si è trasformata in una “crisi finanziaria”, diventata poi la “crisi del debito sovrano” che minaccia di far saltare l’eurozona, con conseguenze imprevedibili per l’economia mondiale.
A differenza delle recessioni precedenti, questa crisi non è limitata nel tempo o nello spazio, è penetrata all’interno dei meccanismi più profondi del sistema e influisce sulle nostre vite. Trasforma le ambizioni professionali in un’utopia, il lavoro in una corsa a ostacoli, la ricerca di un posto dove vivere in una lotta per la sopravvivenza, i contributi pensionistici in una scommessa su un futuro incerto, la ricerca di lavoro in una lotteria. La crisi si è intensificata su tutti i livelli e, con essa, la “guerra di classe” contro i poveri citata da Warren E. Buffett.
Ogni giorno accettiamo e ci adeguiamo alle varie “misure di salvataggio” dei nostri governanti. Le politiche di tagli si susseguono rapidamente, l’una dopo l’altra. La loro soluzione alla crisi è la più semplice possibile ed è la stessa in ogni parte del mondo: tagli alle pensioni, allo stato sociale e all’istruzione, più lavoro e meno salario, sacrifici e cinghia tirata per il “bene del paese”.

Crisi? Quale crisi?
“Crisi bancaria”, “crisi del debito”, “crisi finanziaria”, “credit crunch”: sono tanti sinonimi di miseria. Non siamo davanti a una serie di singole aziende in difficoltà, ma a una crisi strutturale dell’intero sistema che è andata sviluppandosi negli ultimi decenni. All’inizio degli anni Settanta, con la fine dell’era post-boom, si è esaurito un ciclo di accumulo senza paragoni. Per compensare la bassa quota di profitto, il capitalismo ha iniziato a ristrutturare il processo produttivo (ad esempio con l’introduzione della microelettronica), incrementando enormemente il tasso di sfruttamento. Gli stabilimenti produttivi sono stati spostati in paesi con bassi salari e sono stati attentamente ridimensionati i settori chiave della classe lavoratrice industriale delle metropoli. Con la diffusione della flessibilità e del lavoro occasionale, il capitalismo ha tentato di reinventarsi come “economia di servizio”. Allo stesso tempo, la ricchezza creata dal lavoro salariato è stata spostata nella sfera finanziaria, dove il denaro compie “miracoli” (senza creare nuovo valore) e la speculazione raggiunge il suo apice. Il tentativo del capitalismo di affrontare la crisi attraverso la creazione di fonti fittizie di profitto ha determinato ottimi guadagni per pochi super-ricchi; tuttavia, nel lungo periodo, ha portato a un indebitamento crescente, a enormi bolle speculative e a un’instabilità sempre più marcata. Oggi ne vediamo i risultati. Durante la crisi, ognuno pensa per sé. In tutto il mondo si stanno acutizzando rivalità e conflitti imperialistici. La lotta per il dominio di aree e zone d’influenza sta diventando sempre più serrata, le corse agli armamenti e i conflitti armati stanno assumendo forme sempre più drastiche. Naturalmente la guerra non è una soluzione, ma è l’unica che il capitalismo abbia da offrire per emergere dalla crisi della valorizzazione.

 Paura di nessuno!
L’imperante incertezza lavorativa, la disoccupazione, la povertà, la fame e l’esclusione sociale sono la realtà quotidiana di un numero crescente di persone. Sono le paure che dominano la nostra quotidianità: paura per il posto lavoro, paura di uscire dai binari e diventare emarginati, paura di non essere in grado di far fronte alla competitività di questa società. Al posto della promessa di felicità borghese della “fine della storia” nella “libertà e nel benessere”, si è diffusa una speranza rassegnata. La “speranza” di non essere il primo a perdere tutto, la “speranza” che la crisi in qualche modo ci lasci indenni, la “speranza” di una soluzione personale, di una via di fuga. Questa “speranza” è irrazionale e insidiosa, ci divide e ci isola, ci ammorba. Alcuni ricorrono all’alcol e alle droghe e fuggono nella miriade di mondi virtuali della rappresentazione capitalista. Altri compensano la propria debolezza aggredendo chi è ancora più debole e si lasciano invischiare nelle ideologie razziste e nazionaliste dei nostri governanti, diventando i baluardi dell’ordine borghese. Le ideologie reazionarie stanno guadagnando terreno e, al loro interno, il sessismo trova uno sbocco nella violenza quotidiana contro le donne, gli omosessuali, le lesbiche e tutti coloro che non si adattano alla moralità sessuale dominante.
Per molti, l’ordine borghese sembra intoccabile. La borghesia ha perfezionato l’arte della divisione, la manipolazione della repressione e l’esclusione sociale. Per loro, ogni mezzo è lecito se serve a preservare il proprio predominio. Hanno molto da perdere. Noi invece dobbiamo imparare come sconfiggere le nostre paure, unendoci, parlando, dicendo di “no”.
per l’autonomia di classe!

 Il capitalismo può funzionare soltanto fino a quando noi vi obbediremo. Le relazioni sociali sono create dalle persone, quindi le persone possono modificarle. Ogni lotta, ogni sciopero (indipendentemente dalle sue dimensioni) dimostra, seppure a uno stadio embrionale, la capacità della classe operaia di trasformare radicalmente questa società. La borghesia lo sa fin troppo bene. Ha sviluppato un ampio repertorio di sistemi per isolare e frammentare le lotte, sedarle o incanalarle in vicoli ciechi. Se vogliamo difendere i nostri interessi più immediati e vitali dobbiamo liberarci da questa manovra a tenaglia. Dobbiamo trovare metodi e sistemi per superare i confini che ci dividono e instaurare solidarietà e resistenza proprio dove il sistema traccia la linea. Ciò richiede una rottura politica con i sindacati e partiti parlamentari che, senza eccezione, sono intrappolati nella logica del sistema. Il sogno di un capitalismo socialmente addomesticato è finito ed è durato troppo a lungo.
Ancora una volta proprio quegli organi politici che dicono di rappresentare i nostri interessi, attraverso negoziazioni e compromessi con la classe dominante, hanno gettato la maschera e si sono rivelati subdoli difensori del sistema. Dobbiamo riprendere la lotta dal basso, in maniera auto-organizzata e contro ogni compromesso con il sistema capitalista, al di fuori e contro le logiche dei sindacati, unendoci oltre i confini imposti dalle aziende e dai settori di produzione e sulla base di strutture democratiche indipendenti e orizzontali. Nelle fabbriche o negli uffici, sul posto di lavoro o nella quotidianità domestica, non importa, dobbiamo resistere all’arroganza e alla barbarie del capitalismo e lottare per una società diversa.

La libertà come la intendiamo noi

Nessuno dei problemi globali dell’umanità, come la fame, la povertà e la distruzione dell’ambiente, può essere risolto o alleviato all’interno dell’ordine sociale capitalista. Non si tratta di “controllare le banche”, “tassare di più i ricchi” o “nazionalizzare le industrie”. Un capitalismo organizzato su base statale non è un’alternativa auspicabile, come è stato ampiamente dimostrato dall’esperienza dello stalinismo nell’Unione Sovietica e in altre parti del mondo. Senza rompere con la logica capitalistica del profitto, senza togliere il potere alla classe dominante, senza una modalità di produzione completamente diversa non è possibile alcuna nuova società.
L’unica soluzione è una società in cui la produzione è finalizzata al soddisfacimento delle esigenze umane, non al profitto. Una società in cui la produzione è in armonia con le persone e l’ambiente. Una società in cui i mezzi di produzione siano in comune e non nelle mani dei privati o dei capitalisti di stato. Una società basata sull’uguaglianza sociale. Una società in cui gli esseri umani possono essere diversi, senza paure. Quest’associazione di “persone libere ed eguali” non è un’istituzione statale. Non è una condizione o un programma che può essere messo in pratica dall’alto, da un partito o per decreto governativo. La liberazione sociale può essere ottenuta solo con la lotta dal basso, prendendo l’iniziativa, agendo in prima persona, creando solidarietà, in un movimento sociale per il rovesciamento consapevole dei rapporti di subordinazione. Il comunismo, come lo intendiamo noi, non è un programma di indottrinamento sociale bensì, nei metodi e negli scopi, una lotta per la realizzazione della libertà. Ma non potrà materializzarsi da solo. Dipende da noi.

È ora di organizzarsi

L’esperienza traumatica dello stalinismo e la socialdemocrazia hanno lasciato il segno. La confusione e il rancore sono diffusi come non mai. Ma chi vuole difendersi dal capitalismo deve prima fare quanto necessario per sconfiggere l’isolamento. Dobbiamo riflettere sulle nostre debolezze, imparare gli uni dagli altri. Rifiutiamo il modello stalinista di un apparato monolitico di burattini che prendono ordini, esattamente come il concetto riformista di un partito parlamentare, poiché l’effetto concreto di entrambi è agire al servizio dello stato. Siamo comunisti. Non abbiamo intenzione di nascondere le nostre opinioni e le nostre posizioni. Non ci interessano le “tattiche” o gli strumenti nel nostro rapporto con il popolo. Rifiutiamo tutta la politica della rappresentazione. La TCIè un’organizzazione di persone che hanno deciso di opporsi al capitalismo a livello internazionale. Le discussioni e i dibattiti critici sono la nostra linfa vitale e, allo stesso tempo, una condizione imprescindibile per raggiungere i nostri scopi. Il compito dei rivoluzionari è mantenere al primo posto gli interessi di classe dei lavoratori, sviluppandone e sostenendone le lotte, criticando i loro limiti e cercando di rafforzare la coscienza del loro potere. Ciò richiede una forma organizzativa, un’arma indispensabile della lotta di classe: un’organizzazione internazionalista con struttura e ramificazioni internazionali. Non pretendiamo di essere “il Partito” o lo zoccolo duro di tale organizzazione. Al contrario, cerchiamo discussioni e percorsi comuni con forze rivoluzionarie serie tutto il mondo, per incoraggiare la costruzione di una nuova organizzazione rivoluzionaria internazionale. Siamo consapevoli che sarà un processo difficile e a lungo termine. Ma la “guerra di classe” dei ricchi richiede una risposta adeguata. È ora di svegliarsi! È ora di organizzarsi! È ora di lottare!

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