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Una città operaia in armi contro i fascisti

«La battaglia di Novara» di Cesare Bermani
LIBRI CESARE BERMANI, LA BATTAGLIA DI NOVARA. 9-24 LUGLIO 1922. L’ULTIMA OCCASIONE DI UNA RISCOSSA, DERIVEAPPRODI, PP. 347, EURO 22

Liberamente ripubblicato da “il manifesto” del 21 aprile 2010
È il luglio del 1922, Novara. I fascisti sono alle porte, ci sono stati già scontri armati, morti, scorrerie, aggressioni. Novara è la chiave del triangolo industriale, sfondare qui significa per i fascisti avere le porte aperte per la conquista delle roccaforti operaie del triangolo industriale. «Vi fu in quel periodo una riunione alla Camera del Lavoro del Biellese», racconta Alfonso Leonetti, che all’epoca era redattore dell’Ordine Nuovo: ma quando il rappresentante del partito comunista bordighiano si rese conto che era presente Giacinto Serrati, sospetto di riformismo, nonostante le insistenze degli altri partecipanti, se ne andò, «ciò che rese impossibile anche solo l’iniziare la discussione». E intanto i fascisti avanzavano.
Cesare Bermani riporta questo documento nel suo La battaglia di Novara. 9-24 luglio 1922. L’ultima occasione di una riscossa antifascista, ripubblicato e ampliato ora da Derive Approdi. È il racconto minuziosamente documentato della (poco conosciuta) resistenza popolare nella provincia rossa di Novara all’aggressione fascista, e di come esitazioni, divisioni, cecità, compromessi, errori delle forze politiche della sinistra contribuirono a questa sconfitta, decisiva anche sul piano nazionale. L’episodio raccontato da Leonetti è un esempio. Ma nelle conclusioni, Bermani insiste soprattutto sulla responsabilità dei partiti riformisti che, convinti come sempre che «l’opposizione si fa in parlamento» e non nel paese, divisero l’Alleanza del Lavoro e fecero sospendere lo sciopero generale proclamato in Lombardia e in Piemonte per fare argine all’aggressione delle squadre fasciste. Caduto lo sciopero, divisi i lavoratori, si aprì ai fascisti la strada di Novara, la vittoria su tutto il Nord, e la Marcia su Roma.
La responsabilità di questo esito, scrive Bermani, ricade dunque su quelle forze politiche che divisero la resistenza popolare e non capirono che l’unico modo di fermare i fascisti era la lotta dal basso. Ora, come scrive Bermani nell’introduzione, non si fa la storia coi «se», e non è detto che la lotta dal basso avrebbe potuto davvero impedire la vittoria fascista in Italia – ma il fatto è che non fu provata, o almeno non fino in fondo. In un certo senso, La battaglia di Novara evoca quella che è stata chiamata «ucronia»: una narrazione secondo cui la storia sarebbe potuta andare diversamente, e se questo non accadde dipese da noi. L’ucronia, insomma, è un modo per dire che siamo noi e non altri i responsabili della storia, per rivendicare il nostro protagonismo e anche le nostre responsabilità e i nostri errori. E magari alludere al rischio di ripeterli al presente.
Come sempre nella pratica storiografica di Bermani, una tesi interpretativa forte non impedisce, anzi consolida, una pratica documentaria e narrativa scrupolosa ai limiti di una benvenuta pignoleria. I documenti originali – di archivio, di fonte giornalistica, e di fonte orale (compreso un uso intelligente di fonti fasciste) – sono riportati con un’ampiezza insolita, sostenuti da abbondantissime note, e intrecciati in un montaggio quasi cinematografico. Se dovessi dire il libro che più gli somiglia, direi La breve estate dell’anarchia di Hans Magnus Enzensberger, un montaggio di fonti che l’autore collega fra loro «come quando da bambini si faceva passare l’acqua aprendo canali da una pozzanghera all’altra». Meno letterario e più documentale, La battaglia di Novara può sembrare una lettura faticosa, fino a che uno non si lascia prendere dal gioco dei linguaggi: la retorica fascista rigonfia di iperboli e superlativi, i suoi echi anche nella stampa antifascista del tempo, la concretezza quotidiana delle fonti orali e la passione coinvolgente del dialetto riportato con precisione filologica.
Uno dei momenti alti del libro è la lunga narrazione di Fenisia Baldini, che stava andando a ballare con le amiche quando si trovò nel mezzo della battaglia. Vale la pena di rendere omaggio a questa donna, militante proletaria, alla quale (tramite le registrazioni di Cesare Bermani negli anni ’60) dobbiamo molte delle canzoni politiche entrate poi nel movimento della canzone popolare e nella nostra memoria comune: è fatto di persone come lei il midollo dell’identità operaia e della cultura di resistenza del nostro paese (la sua voce la possiamo sentire adesso in un altro lavoro prezioso E recente di Cesare Bermani, Vieni o maggio. Canto sociale, racconti di magia e ricordi di lotta della prima metà del XX secolo nella Bassa Novarese, Novara, Interlinea 2009, con due CD di registrazioni originali).
Come sempre, il linguaggio veicola il senso profondo degli avvenimenti narrati, lo sato d’animo di chi li vive e li racconta. Il resoconto fascista di una scorreria contro il paese di Recetto: «Senza colpo ferire rimaniamo padroni assoluti della posizione». È il linguaggio militare, che domina queste narrazioni di gesta. A fine giornata, le squadre fasciste «dopo tredici ora di lavoro, di assalti, senza posa e senza cibo, vittoriose, con i cimeli di guerra, esauste per la fatica, ma non per lo spirito, ritornano cantando i loro inni all’accampamento di Borgo Vercelli». Sembra di sentire gli echi del famoso comunicato della vittoria di Armando Diaz. E infatti: stiamo raccontando uno scontro politico, o stiamo raccontando una guerra? Non è tanto il dato materiale dei morti (otto antifascisti, tre fascisti), quanto lo spirito implicito nel linguaggio dei vivi a suggerire che davvero a Novara in quei giorni, e forse non solo lì, ci si sentiva come nel pieno di una vera e propria guerra civile, in cui l’obiettivo era l’annientamento dell’altro da un lato, e la sopravvivenza per lottare ancora dall’altro.
Tempo fa, raccontandomi un sanguinoso sciopero, la violenza padronale e la resistenza sindacale, un operaio di Detroit mi diceva: «non fu una passeggiata di pistoleri» – anche i lavoratori risposero a tono a chi gli sparava addosso. Scrivendo di Novara, ancora nella sua fase antifascista, Giampaolo Pansa parlava di «una passeggiata, sia pure violenta»: come dire che gli unici protagonisti sulla scena furono i fascisti, e l’opposizione o non ci fu o non li intralciò più di tanto. Raccontando minuziosamente una miriade di episodi di quei giorni, Bermani ci fa vedere che no, non fu affatto una passeggiata di pistoleri: per prendersi Novara e la sua provincia, i fascisti dovettero confrontarsi con un proletariato combattivo, spesso armato, tutt’altro che remissivo e rassegnato. La «passeggiata» avvenne dopo, e si chiamò Marcia su Roma. Ma ad aprirgli la strada fu (anche?) l’abbandono di quella lotta dal basso che conobbe a Novara uno dei suoi momenti più alti, e meno raccontati.

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