• Senza categoria

Keynesismo o rivoluzione ?

A cura di Falaghiste

La debolezza del consumo della massa della popolazione non può essere vista come la causa delle crisi capitaliste. Come spiega Engels nel Anti-Dühring:
il sottoconsumo delle masse… non è affatto un fenomeno nuovo. Esso esiste da quando sono esistite classi sfruttatrici e sfruttate… è una condizione necessaria di tutte le forme sociali poggianti sullo sfruttamento e quindi anche della forma sociale capitalistica; però solo la forma capitalistica della produzione conduce a delle crisi. Il sottoconsumo… tanto poco… ci dice sulle cause dell’esistenza attuale delle crisi, quanto poco ci dice sulle cause della loro assenza nel passato [Marx-Engels, Opere, vol. XXV, Roma, Editori Riuniti, 1974, pp. 275-276].

Nella produzione capitalista, scrive Marx, il sottoconsumo è un fenomeno costante creato dal processo stesso dell’accumulazione del capitale:
Poiché il capitale non ha come scopo la soddisfazione dei bisogni, ma la produzione di profitto… è inevitabile che si crei una discrepanza continua fra le dimensioni limitate del consumo su base capitalistica e una produzione che tende costantemente a superare il proprio limite immanente [Marx, Il Capitale, libro terzo, cit., pag. 328].
Se l’origine delle crisi non risiede nel sottoconsumo, il loro riassorbimento può forse riposare sulla stimolazione della domanda globale, che è al centro della politica economica keynesiana , con programmi di rilancio fondati su stimoli monetari e fiscali destinati a promuovere la crescita della produzione e dell’impiego attraverso la domanda di beni di consumo e l’investimento pubblico e privato: abbassamento dei tassi d’interesse, riduzioni d’imposta, aumento del salario minimo, sostegno ai disoccupati, ai più poveri e ai pensionati, sovvenzioni alle imprese in difficoltà e lavori d’infrastruttura.

Questi mezzi sono adatti per realizzare gli scopi che si prefiggono? Perchè lo siano, bisognerebbe che potessero risolvere il problema che è all’origine del loro utilizzo, il blocco dell’accumulazione. Le spese pubbliche stimolano l’attività economica. La produzione indotta da queste, in particolare attraverso lavori pubblici, costruzione di strade, scuole, ospedali, ecc. aumenta la domanda globale per mezzo di acquisti dalle imprese private che fanno profitti. Le altre spese pubbliche, creando redditi che saranno spesi, hanno ugualmente un’incidenza sul sistema produttivo aumentando la domanda globale. Tutto lascia quindi credere che questa spese avranno l’effetto di aumentare la quantità globale di profitto che va al capitale privato, fornendogli così gli ingredienti necessari per superare le sue difficoltà d’accumulazione. Ma prima di tirare delle conclusioni, bisogna interrogarsi sulla fonte del finanziamento delle spese pubbliche e sull’uso, produttivo o improduttivo, al quale sono destinate.

Il finanziamento delle spese pubbliche proviene da entrate del governo che, direttamente o indirettamente, si riducono tutte, aldilà delle loro particolari forme, alle due fonti che sono il prelievo sui redditi da capitale e sui redditi da lavoro salariato, cioè sui profitti e sui salari, poiché i prestiti equivalgono a imposte differite. Ogni imposta sui profitti è una riduzione della loro parte accumulabile (capitalizzabile). Le somme prelevate in imposte sui profitti possono, in tutto o in parte, tornare al capitale come sovvenzioni alle imprese in difficoltà. Globalmente, il capitale recupera allora delle somme che sono di nuovo disponibili per l’accumulazione. Le somme prelevate come imposte sui profitti ritornano anche in modo indiretto attraverso l’intermediazione dei servizi che lo Stato fornisce alle imprese private. Ma il solo apporto netto è quello che proviene dall’imposta sui salari.

La produzione indotta dallo Stato migliora la situazione dal punto di vista del profitto globale solo se il suo finanziamento proviene da un prelievo sui salari. Infatti, la condizione che consente il miglioramento è essenzialmente quella da cui dipendono in generale la produzione e l’accumulazione capitalista, vale a dire il rapporto tra lavoro salariato e capitale, tra salario e profitto, in altri termini la possibilità per il capitale di estorcere di più dalla forza lavoro con l’intermediazione dello Stato. La spesa pubblica e l’aumento della domanda globale a cui dà luogo non giocano alla fine qui che un ruolo d’intermediario; il loro effetto, se è positivo, risiede su basi esterne. La produzione indotta dallo Stato è, di per sé, inadatta a rimediare alle difficoltà dell’accumulazione.

Ma questa è solo la prima dimensione di un processo che, in fin dei conti, non sarà necessariamente favorevole all’accumulazione. Tutto dipende a cosa saranno destinate le somme percepite dallo Stato. Assegnate all’impresa privata in sovvenzioni dirette o come sostegno di vario tipo alla sua attività redditizia, influenzeranno favorevolmente l’accumulazione. Versate ai disoccupati, ai pensionati, ai variamente assistiti, o destinati al finanziamento dei servizi pubblici (sanità, educazione,trasporti, rete stradale, installazioni sanitarie, difesa, sicurezza pubblica, ecc.) e dei lavori pubblici, in una parola spesi improduttivamente, costituiscono un peso per l’accumulazione. Per essere produttiva nel senso capitalista del termine, bisogna che la spesa pubblica sia non produttiva “in generale” o produttrice di beni utili, ma produttiva per il capitale o generatrice di profitto.

Spese pubbliche improduttive per il capitale
Versate a una popolazione esclusa dall’attività produttiva, le diverse indennità di sostegno ai disoccupati, alle persone variamente assistite, ai pensionati, ecc., non sono l’equivalente dei salari versati in qualità di capitale variabile a dei salariati attivi la cui funzione è quella di far fruttare il capitale. Sono spesi dallo Stato proprio i redditi percepiti grazie alle imposte sui salari e sui profitti della frazione attiva della popolazione. Serviranno alla fine all’acquisto dei beni di consumo, compensando così la riduzione del consumo finale e intermediario che viene dalle imposte percepite sui salari e sui profitti. Ma dal punto di vista del capitale e della sua accumulazione, le spese pubbliche che hanno permesso questo consumo non hanno la stessa incidenza che la somma equivalente versata in salari a dei lavoratori attivi. Consumate in modo improduttivo, sono perse per l’accumulazione. E per il capitale non conta nient’altro. Dal punto di vista del capitale sono improduttive.

E’ lo stesso per le spese destinate al finanziamento dei servizi pubblici e dei lavori pubblici. Un investimento pubblico nelle infrastrutture è un investimento nel senso generale del termine, nella misura in cui lo Stato mette in piedi attrezzature materialmente e socialmente necessarie. Al contrario, se s’intende il termine “investimento” non più in questo senso generale e sociale, ma nel senso proprio dell’economia capitalista, quello dell’investimento del capitale, cioè d’investimento la cui finalità è quella di fruttare, non si può più parlare di spese pubbliche d’infrastruttura come di un investimento, perchè un tale “investimento” è improduttivo per il capitale, cioè non produttore di profitto. Una volta realizzata, la produzione indotta dalla Stato, come una nuova strada per esempio, è messa a disposizione del pubblico. In quanto bene di consumo pubblico ha un’accessibilità generale e gratuita. La spesa pubblica effettuata per realizzarla non dà profitto.

Un investimento produttivo è un investimento che frutta. Figliando è in grado di “pagare da solo”, di produrre da solo i fondi necessari all’ammortamento del costo iniziale, alla conservazione e al suo funzionamento e all’occorrenza alla riproduzione su più larga scala. Questo non è il caso della spesa pubblica di cui stiamo parlando; questa è improduttiva. L’investimento pubblico cui dà luogo non frutta. Non “paga”. Il suo ammortamento, così come le spese correnti di funzionamento, di mantenimento e di riparazione devono essere finanziate con le entrate annuali dello Stato, che gli derivano da un’altra fonte, quella delle imposte e dei prestiti. Sarebbe evidentemente un’altra cosa il caso di un’autostrada a pedaggio le cui spese di utilizzo fossero stabilite in modo da assicurare non solo l’autofinanziamento, ma anche la redditività di una spesa che risulterebbe così un investimento in senso stretto. Saremmo allora in presenza di un consumo di tipo privato, redditizio, e non di un consumo pubblico.

La sola attività che genera un profitto globale è quella che proviene dal rilancio dell’investimento privato o dall’investimento pubblico redditizio, dalla creazione di nuove capacità produttive i cui prodotti sono destinati non al consumo pubblico ma al consumo privato redditizio. Qui è la spina dorsale dell’attività in regime capitalista. Il fine ultimo della politica keynesiana e dei governi che vi ricorrono è precisamente di arrivare con l’intervento statale a ristabilire le condizioni di redditività privata e di preservare lo statu quo ante.

Una necessaria presa in mano da parte dello Stato
Mentre ieri giuravano solo sul mercato, oggi i governi sono intervenuti massicciamente a colpi di miliardi di dollari di fondi pubblici, soprattutto per acquistare su una base temporanea e senza rivendicare alcun diritto sulle loro decisioni, una parte del capitale di grandi banche, di società di assicurazioni e di altre società private, con lo scopo di assicurarne il salvataggio a spese della collettività e di gettare le basi di un ritorno integrale all’iniziativa privata redditizia, di conseguenza all’anarchia che ne è il fondamento e alle crisi a venire che non potranno che derivarne.

Invocano per questo l’argomento del “too big to fail” (espressione consacrata dal gergo finanziario anglosassone che significa “troppo grande per fallire”) e agitano lo spauracchio di rischi ancora più grandi per l’economia e per i posti di lavoro che ne risulterebbe in caso di rifiuto dei poteri pubblici d’intervenire.

Questi interventi dello Stato non hanno nulla della “socializzazione” che alcuni vi hanno voluto vedere, mettono invece chiaramente in evidenza il vicolo cieco a cui il sistema della proprietà privata porta quando è lasciato a se stesso, e l’obbligo che gli si impone di cercare la via d’uscita all’esterno dei propri ambiti, cioè all’esterno del quadro dell’iniziativa privata facendo appello allo Stato. La crisi attuale evidenzia grandemente i limiti di questo sistema, l’incompatibilità, come diceva Marx, tra la dimensione sempre più grande, cioè sempre più sociale, dei mezzi di produzione e il carattere sempre più privato e concentrato della loro proprietà. Un’incompatibilità che comporta la necessità della loro presa in mano da parte della collettività e della loro pianificazione democratica come beni pubblici che hanno una missione di servizio pubblico, ma che punta il dito, drammaticamente, sul degrado politico attuale prodotto da trent’anni di neoliberalismo e di impreparazione dei lavoratori chiamati a raccogliere questa sfida. Da qui l’urgenza di mettersi d’impegno. Per proseguire, bisogna prima di tutto prendere coscienza del fatto che un’impresa privata giudicata “too big to fail” e la cui sopravvivenza risiede nel sostegno statale, dovrebbe essere considerata come “too big to remain private”, troppo grossa per rimanere proprietà privata, sotto gestione privata e fonte di profitti privati. La politica minima che deriva da questo corollario dovrebbe essere il rifiuto alle società, al soccorso delle quali si corre, di qualsiasi concessione di fondi pubblici non accompagnata da un’acquisizione almeno parziale, se non totale, da parte dello Stato, su base permanente e con un controllo determinante di gestione. A tale proposito bisogna notare che il molto conservatore Financial Times di Londra ha evocato nel novembre scorso l’eventuale necessaria presa in mano dello Stato delle grandi banche salvate con fondi pubblici che continuassero a rifiutare di svolgere il loro ruolo sociale di dispensatrici di credito alla popolazione, destinando ad altro uso il denaro pubblico messo a loro disposizione. Questa idea è stata in seguito ripresa da dirigenti politici e ambienti finanziari di fronte alla constatazione di fallimento dei piani di salvataggio già messi in opera, precisando tuttavia chiaramente il loro punto di vista secondo il quale la nazionalizzazione, se si doveva ricorrere a questa in extremis, avrebbe dovuto essere un acquisto dello Stato al “giusto valore di mercato” e non un’espropriazione, nella prospettiva esplicita di rimettere il prima possibile nelle mani del capitale privato imprese ridiventate redditizie grazie al recupero pubblico.

La proprietà pubblica delle banche e delle società di credito garantirebbe l’esercizio di questa funzione sociale che è loro e bandirebbe la speculazione, la frode e le indecenti remunerazioni dei dirigenti che incancreniscono il sistema. Sarebbe un’utile chiave di controllo da conquistare per la collettività sull’organizzazione generale dell’attività produttiva e distributiva. Per riprendere i termini di Engels nell’Anti-Dühring, questo processo è “economicamente inevitabile”, e spinge il “rappresentante ufficiale della società capitalista, lo Stato” a prendere la direzione delle grandi imprese a questo stadio del loro sviluppo, in cui sono diventate “così enormi” per essere dirette dalle società per azioni. Una tale statalizzazione, precisa, “anche se viene compiuta dallo Stato attuale, rappresenta un progresso economico”. Significa “il raggiungimento di un nuovo stadio preliminare nella presa di possesso di tutte le forze produttive da parte della società” [Marx-Engels,Opere, vol. XXV, cit., pp. 266-267].

Luis gill

Potrebbero interessarti anche...

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.