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Alcune osservazioni sulla lotta alla povertà nei paesi capitalistici

Forse tu fai delle elemosine. Ma da dove le prendi, se non dalle tue rapine crudeli, dalla sofferenza, dalle lacrime, dai sospiri? Che vale consolare un povero, se ne crei altri cento? (Gregorio di Nissa)
La condizione di continuata o cronica deprivazione delle risorse indispensabili a vivere in condizioni dignitose e al godimento dei diritti umani inalienabili è il prodotto di un sistema politico-economico globale che ogni giorno, ogni istante, riproduce accresciute le disuguaglianze sociali e schiaccia gli individui.
Partendo dall’ovvio assunto che la povertà non possa essere avversata da chi sostiene e promuove un ordine caratterizzato da scelte politiche neoliberiste che hanno effetti sociali devastanti, ne consegue che questa condizione non possa essere combattuta solo attraverso un processo di auto-emancipazione e di autorganizzazione dei ‘poveri’ (ossia di tutti gli uomini e tutte le donne che lavorano sottopagati, che sono disoccupati, che devono migrare …) ossia da noi.
L'”Employment Outlook 2009″ dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico, OCSE, che raggruppa i paesi capitalistici più avanzati, dice una verità molto semplice sulla crisi economica in atto: il peggio, che per i padroni è (forse)passato, per i lavoratori viene adesso.L’anno che verrà nell’area OCSE i disoccupati arriveranno a 57 milioni, con un tasso molto vicino al 10% delle forze attive di lavoro. Per l’Italia la crescita della disoccupazione toccherà il 10,5%. Come riconosce il rapporto stesso, ci troveremo ad affrontare la situazione peggiore dal dopoguerra.
Sull’Italia l’OCSE dice che l’impatto della crisi sul mercato del lavoro italiano è stato fino a oggi “moderato” rispetto a molti altri paesi. Il tasso di disoccupazione ha raggiunto il 7,4% nel marzo del 2009, ma “stime preliminari suggeriscono un ulteriore significativo incremento nel secondo trimestre”. E aggiunge che in Italia “il tasso di disoccupazione sarebbe stato più alto se un gran numero di lavoratori non avesse rinunciato a cercare attivamente lavoro”.
Le statistiche del rapporto dell’OCSE traducono in numeri astratti e generali gli innumerevoli casi particolari che la cronaca ci ha presentato in queste ultime settimane: crisi aziendali, chiusure, licenziamenti collettivi, precari lasciati a casa.
Ma anche, per fortuna, mobilitazioni, proteste clamorose e ostinate resistenze.Di fronte alla tempesta in arrivo, tuttavia, la resistenza caso per caso non potrà bastare. Per ogni situazione che riuscirà a salvarsi, quante saranno,quelle che affonderanno Lottare, anche duramente, non basterà.
E’ quanto mai necessario coordinare le situazioni che resistono e attrezzarsi per una risposta generale.
Servono obiettivi rivendicativi adeguati: il blocco dei licenziamenti; un netto aumento dell’integrazione salariale per chi è sospeso e dell’indennità di disoccupazione per chi ha perso il lavoro; l’esproprio e la nazionalizzazione sotto il controllo dei lavoratori delle aziende che chiudono e licenziano, per evitare smantellamenti e speculazioni; la riduzione dell’orario a parità di paga fino al riassorbimento degli esuberi e dei disoccupati; l’abrogazione delle leggi di precarizzazione e delle norme punitive contro gli immigrati che trasformano in “clandestino” chi perde il lavoro; infine investire in un piano del lavoro per lo sviluppo delle fonti energetiche alternative, per opere di risanamento ambientale e di recupero e riqualificazione del patrimonio edilizio, per ampliare i servizi di utilità sociale come la scuola, la sanità, i trasporti pubblici…
So già che mi si obietterà che queste rivendicazioni sono “impraticabili”, e non ho difficoltà a riconoscere che l’attuale quadro di passività sociale senz’altro pare dare ragione a queste obiezioni.
Ma l’esperienza storica insegna che è proprio nelle situazioni drammatiche determinate dalle grandi crisi che sono possibili le svolte più radicali, i rovesciamenti “impossibili” fino al giorno prima, l’adozione di provvedimenti che proprio la crisi costringe a praticare… D’altra parte credo non abbia senso parlare di abolizione della povertà se non si cercasse con tutti i mezzi di determinare una svolta di questo tipo.
Maddalena Robin

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