La chiamano DAD

di Nikita

La chiamano DAD perché in quest’epoca dominata dagli acronimi la dicitura per esteso, così poco trendy, infastidiva qualcuno. Comunque è la Didattica a Distanza, il nuovo modo di interpretare la scuola ai tempi del Covid-19.

Che dire? Ne abbiamo sentite di tutti i colori, dagli insegnanti che si lamentano perché non hanno un pc (e, per onestà intellettuale, bisogna dire che i governi, tra le tante brutture degli ultimi anni, hanno comunque garantito ai docenti di ruolo un bonus annuo di 500 euro per l’acquisto anche di questo tipo di prodotti), alla connessione ballerina, agli studenti che non partecipano e via dicendo. Ma si sa, è una situazione emergenziale e ognuno fa quello che può. Ha ragione la Lucia (Azzolina) a dire che gli insegnanti stanno dando il meglio di sé in questo frangente tenendo lezioni online anche se hanno figli piccoli ed urlanti attaccati alle ginocchia e  il cane che abbaia inviperito o la tavoletta grafica che fa i capricci e chi più ne ha, più ne metta. Ma la DAD non è, né sarà mai la presenza, la possibilità di vedere negli occhi l’interesse o meno dei ragazzi. Ed io, docente, non posso, non riesco, a far sentire, la passione, la commozione che mi prende recitando “E il naufragar m’è dolce in questo mare”. Non davanti ad uno schermo, no, il Giovane Favoloso merita di meglio. E questo lo sa, la Lucia. Ma è vero, siamo in emergenza, roba da Spagnola del 1918, cara Lucia. E tu ti sei ritrovata, da ministro, sulla testa una tegola inimmaginabile per cui emani decreti indecifrabili in cui dici tutto ed il contrario di tutto. Ma una cosa ti deve essere chiara in questa fumosa urgenza: che non ci saranno mai tutti nella tua iperelogiata DAD. Questo è il vero dramma, il vulnus, il lutto della didattica a distanza.

Non ci sarà il figlio della famiglia disfunzionale che, tra un padre alcolista e una madre depressa, non troverà la forza, chiuso nel proprio inferno personale, di connettersi con una realtà in cui nessuno gli può dare un buffetto sulla guancia, in classe, per dirgli in silenzio “Qui sei al sicuro”.

Non ci sarà il figlio dell’operaio a 1200 euro al mese che non possiede un cellulare ultimo modello con funzioni che gli consentano di fare video lezioni, presentazioni ed invio compiti.

Non ci sarà il figlio affetto da handicap grave, che non sente e/o non parla e la cui interazione con il docente, a scuola, è basata tutta sulla presenza, sugli stimoli  tattili e visivi, sulle sensazioni e sulla lettura dei dettagli, dei cambi di espressione.

Non ci sarà il figlio degli immigrati recenti che ancora fatica ad esprimersi in una lingua non sua, una lingua che imparerà certo grazie all’alfabetizzazione, ma soprattutto grazie all’interscambio con i compagni.

Insomma, cara Lucia, nonostante i tuoi sforzi e le tue dichiarazioni, non ci saranno gli ultimi, quelli che della scuola invece hanno più bisogno. E forse, cara Lucia, tu lo sai in cuor tuo, ma non lo puoi dire, anzi: centri il focus sui programmi (concetto peraltro molto opinabile dopo le Indicazioni Nazionali del 2012) perché non sai come si possano davvero raggiungere gli ultimi, quegli ultimi che restano sempre gli ultimi e che non saranno i primi. Mai.

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