Le tendenze a una nuova precipitazione della crisi e la fragilità italiana

L’iniziativa per unificare le lotte contro il governo; la prospettiva politica del PCL

La Grande Crisi che si è aperta nel 2007/’08 sta incubando una sua nuova precipitazione. L’inversione dei tassi sui titoli del tesoro USA e breve ed a lungo termine, la stagnazione industriale europea, il rallentamento cinese, sono tutti segnali della fragilità di una gestione capitalistica della crisi incapace di riavviare il ciclo perché non in grado di affrontare e contrastare le tendenze alla caduta dei saggi di profitto, alla sovrapproduzione di merci e capitale, agli squilibri tra settori produttivi e aree del mondo.
La dinamica di precipitazione delle tendenze e delle contraddizioni determinate da questa gestione capitalistica della crisi sospinge i conflitti sociali e la competizione interimperialistica, nel quadro della dinamica ineguale e combinata del modo di produzione capitalistico. Crescono cioè sul piano mondiale le tensioni fra i principali poli dello sviluppo capitalista, gli scontri che coinvolgono le grandi potenze, grandi movimenti e rivolte di massa in particolare nei paesi della periferia e della semiperiferia: basti pensare, in questi ultimi mesi, all’innesco delle guerre commerciali tra USA, Cina ed Europa; al riacutizzarsi delle guerre nel quadrante mediorientale (il bombardamento in Arabia Saudita, gli affondamenti nello Stretto, l’invasione turca del Rojava, i bombardamenti israeliani in Siria e contro la jihad islamica nella Striscia di Gaza), alle grandi manifestazioni e alle dinamiche quasi insurrezionali in Algeria, Libano, Iraq, Cile, Iran, Colombia, Sudan, ecc; come, su un piano diverso, la dinamica da guerra civile in Bolivia (determinata dall’offensiva golpista e di massa della destra razzista, filoimperialista e reazionaria, incubata dalle politiche di collaborazione di classe del lungo governo di Evo Morales) e il movimento di massa autonomista di Hong Kong (trainato da settori giovanili indipendentisti e della media borghesia professionale e commerciale).

Questa dinamica di nuova precipitazione della Grandi Crisi sottolinea in particolare le fragilità dell’Unione Europea. Da una parte, quelle della sua struttura da tardo capitalismo, con un nucleo produttivo mitteleuropeo centrato sulle esportazioni industriali. Dall’altra, quelle delle sua frammentata ed incompiuta infrastruttura politica, incapace di dare un’asse stabile al continente.
L’Europa degli ultimi mesi è stata così segnata dal crollo della crescita industriale tedesca che si è propagata in tutta la sua filiera continentale, dal permanere di evidenti “friabilità” e squilibri finanziari, dall’incapacità di sostenere attraverso spesa pubblica e politiche strutturali di integrazione lo sviluppo di un capitale continentale. Così, sono cresciute le forze della destra reazionaria (anche in Germania o Spagna), diffondendo incertezza ed instabilità in diversi paesi e nell’Unione Europea nel suo complesso. Così, si sono protratte dinamiche centrifughe su alcuni territori (nazionalismi centro-europei, Brexit, ecc), che mettono sotto pressione lo scombinato quadro istituzionale del continente. Così oggi viene messo in discussione dal voto socialdemocratico il governo SPD-PPE della Germania.
Eppure, queste fragilità e contraddizioni non mettono ancora in discussione gli assetti sociali e politici di fondo dell’Europa, che rimangono ancora dominati dalle frazioni del capitale, delle sue principali potenze e dalle loro politiche neoliberali. Così, nonostante il risultato elettorale che ha visto una significativa contrazione delle forze socialiste e popolari, il Parlamento Europeo ha saputo eleggere una Commissione, a guida conservatrice, nel segno della continuità con quelle precedenti.

Questa fragilità è particolarmente evidente in Italia. Il suo frammentato sistema produttivo è messo sotto particolare tensione dalla dinamica della Grande Crisi, a partire dai suoi due settori portanti dell’ultimo decennio: da una parte il quarto capitalismo delle piccole e medie multinazionali, come quello inserito saldamente nelle filiere mitteleuropee, focalizzati sulle esportazioni e quindi colpiti dalle tensioni internazionali; dall’altro le grandi società pubbliche e infrastrutturali (ENI, ENEL, Trenitalia, Autostrade, Leonardo, Fincantieri, ecc), che risentono della frammentazione continentale, delle incertezze politiche e di quelle del mercato italiano. La spinta quindi all’uscita dalla lunga stagnazione, che sembrava tratteggiarsi negli anni passati, è stata profondamente messa in discussione proprio dalla recente dinamica mondiale. In questo quadro, è la struttura produttiva e sociale del paese che evidenzia tutta la sua “friabilità”, nel quadro di una possibile precipitazione a breve che la troverebbe esposta nella sua struttura di fondo.
In questo quadro complessivo, l’esperienza dei due mesi di vita del governo Conte ha visto confermati e aggravati i fattori di difficoltà e di logoramento del nuovo esecutivo, rendendo sempre più palese la sua inadeguatezza, la debolezza della sua composita compagine, l’incapacità di reggere nell’attuale contraddittoria fase.


IL LOGORAMENTO PRECOCE DEL GOVERNO CONTE

Il peso delle clausole di salvaguardia sull’IVA, i margini stretti di negoziazione nella UE, l’eredità di spesa del precedente governo (quota 100 e reddito di cittadinanza), hanno stretto nel loro insieme lo spazio di manovra delle politiche di bilancio. La legge di stabilità ne è un riflesso.
Il governo non attua misure di attacco diretto e frontale al lavoro salariato, perché si appoggia sulle controriforme sociali dei precedenti governi. Ma al tempo stesso non può varare alcuna reale operazione redistributiva. Le misure sociali su superticket e asili nido gratuiti sono molto al di sotto, nella loro portata e nella percezione diffusa, delle misure populiste delle precedenti stagioni (80 euro, quota 100, reddito di cittadinanza). Mentre l’operazione sul cuneo fiscale, pur a vantaggio dei salari, ha valenza molto modesta.
Sul versante delle misure filopadronali, il governo ripristina pienamente le agevolazioni per Industria 4.0, come chiedeva il grande padronato. Ma non trova margini per ulteriori riduzioni fiscali a vantaggio dei profitti e soprattutto per i piani di rilancio infrastrutturale che il grande capitale chiedeva, mentre il ricorso a nuove misure di imposizione indiretta (plastica, auto aziendali, zuccheri) hanno innescato un vasto scontento negli ambienti padronali, in particolare nel Nord. La gestione pasticciata e oscillante della vicenda Ilva attorno al nodo dello scudo penale ha accresciuto i malumori della borghesia contro i condizionamenti “populisti” nella politica industriale.

Sul piano politico, la maggioranza di governo si mostra priva un baricentro.
Né il PD né il M5S sono nelle condizioni di esercitare l’egemonia sul governo. Né l’uno né l’altro dispongono di un rapporto di forza favorevole nei confronti dell’alleato. Sia l’uno che l’altro sono scossi al proprio interno da dinamiche laceranti o contraddizioni esplosive. Il M5S vede una precipitazione drammatica della propria crisi: rottura della propria catena di comando, frattura tra capo politico e gruppi parlamentari, frattura tra capo politico e realtà territoriali del movimento, ulteriore arretramento del suo bacino elettorale. Una direzione politica sconfessata o paralizzata si regge sulla assenza di una soluzione di ricambio e di un’alternativa politica su cui spenderla. L’intervento diretto di Beppe Grillo mira a tamponare la crisi del M5S, ma non la può risolvere.
Il PD è appena reduce di una scissione verticale (Italia Viva) a livello di gruppi parlamentari, che potrebbe non essersi conclusa. La coabitazione di governo col M5S lo espone a contraddizioni ripetute con i gruppi dominanti specie sul terreno della politica industriale (Ilva e Alitalia), mentre l’ingovernabilità del M5S blocca il disegno di costruzione di un polo comune contro la destra. Il progetto di normalizzazione e costituzionalizzazione del M5S all’interno di un polo organico da consolidare al centro e proiettare sui territori è in alto mare, nonostante l’impegno convergente di Zingaretti e Grillo in questa direzione. Prima la sconfitta in Umbria, poi il voto sulla piattaforma Rousseau a favore della presentazione elettorale del M5S in Emilia e Calabria, sono ulteriori ostacoli sul suo cammino. Un suo fallimento si riverbererebbe sul governo con effetti potenzialmente deflagranti.

A pochi mesi dalla sua formazione, il governo Conte sembra dunque aver esaurito la propria spinta iniziale. Il tentativo di Conte di ergersi al di sopra delle contraddizioni della sua maggioranza non dispone di spazi significativi. Lo stesso rapporto privilegiato con la presidenza della Repubblica ha subito un’usura reale, mentre l’ipotesi di una candidatura Conte per rimpiazzare Di Maio ai vertici del M5S ha perso ogni possibile attrattiva a fronte dell’ingovernabilità della crisi pentastellata. Il Presidente del Consiglio è dunque costretto a reggersi più sul PD che sul Movimento 5 Stelle, che l’aveva indicato, mentre un settore della maggioranza zingarettiana del PD inizia a contemplare la crisi di governo come unica via per salvare il PD dal logoramento annunciato, e bloccare il disegno concorrenziale di Italia Viva.

Italia Viva, dal canto suo, investe sulle contraddizioni del PD per disarticolarlo, e al tempo stesso punta sulla conquista del blocco sociale di Forza Italia a fronte della sua agonia. La campagna per l’abolizione di quota 100 e del reddito di cittadinanza in funzione di un piano straordinario per le infrastrutture e della ulteriore riduzione delle tasse sulle imprese cerca di incunearsi nelle contraddizioni tra PD e domanda confindustriale, al fine di comporre attorno a sé un blocco egemone. Questo disegno contribuisce a sua volta al logoramento del governo.

Il governo Conte si appoggia dunque provvisoriamente su tre fattori combinati: il vicolo cieco imboccato dal M5S, l’esigenza di tempo da parte di Italia Viva prima di affrontare una prova elettorale, la paura fondata di uno sfondamento elettorale della destra in caso di elezioni anticipate.


LA RIPRESA DELLA DESTRA REAZIONARIA

La ripresa e allargamento ulteriore del blocco sociale del centrodestra è la risultante dello scenario politico. Matteo Salvini ha superato gli effetti della fallita operazione di agosto e ha ripreso la propria marcia in avanti. Fratelli d’Italia attorno a Giorgia Meloni accelera la propria crescita sommandosi alla ripresa della Lega, capitalizzando parte della crisi di Forza Italia e ricomponendo attorno a sé tendenzialmente il vecchio elettorato di Alleanza Nazionale. Per la prima volta la somma delle propensioni elettorali della destra complessivamente intesa lambiscono il 50% dei voti, e pongono una ipoteca sulla prossima legislatura. Lo scontro che si annuncia sulla legge elettorale è importante, in questo scenario, e coinvolge la stessa maggioranza. M5S, IV, LeU puntano a bloccare o attutire l’affermazione annunciata della destra attraverso una riforma elettorale di tipo proporzionale (con sbarramento alto per il M5S). Il PD è diviso, ma a maggioranza predilige un sistema elettorale a doppio turno ritenendo che l’evoluzione della situazione politica e la crisi progressiva del M5S portino verso un nuovo bipolarismo tra una destra a guida salviniana e una “sinistra” dominata dal PD. Il blocco di centrodestra è promotore invece – attraverso la richiesta di cinque Regioni controllate – di una riforma elettorale che mira a cancellare la quota proporzionale della legge attuale, ciò che combinandosi con la riduzione del numero dei parlamentari (anch’essa oggetto di una possibile iniziativa referendaria di fonte parlamentare) amplificherebbe notevolmente a vantaggio della destra gli effetti della sua affermazione.
La prospettiva di rivincita della destra rischia però di consumarsi su uno sfondo di nuova crisi economica, di nuovi conflitti con le istituzioni europee, di limitati spazi di finanziamento di ulteriori concessioni populiste. Da qui un elemento di preoccupazione e riflessione ai vertici della Lega, un tentativo di parziale stemperamento del suo profilo radicale, l’assunzione di nuove posture e relazioni. L’apertura di un canale di rapporto tra Salvini e Ruini mira a una sorta di distensione e legittimazione presso parte delle gerarchie clericali. La proposta pubblica da parte di Giorgetti di un dialogo politico a 180 gradi per una definizione comune di legge elettorale e riforme istituzionali è indicativa della volontà di predisporre uno spazio di governabilità futura. La Lega vuole evitare sia gli effetti di una marginalizzazione “lepenista” sia un salto nel vuoto.


LA DINAMICA DI CLASSE, IL FRONTE SOCIALE, I SINDACATI DI BASE E LA CGIL

Il fronte sociale continua ad essere segnato dalla crisi del movimento operaio.
Numerose sono le lotte di resistenza sul fronte di fabbrica, da Whirlpool all’Ilva sino alla Continental, come diversi sono i fronti aperti che interessano milioni di lavoratori e lavoratrici, con segni evidenti di malessere, tensione sociale e anche incipienti segnali di mobilitazione: dai precari della scuola ai riders, dagli oltre tre milioni di pubblici impiegati in attesa del rinnovo contrattuale ad un comporto metalmeccanico che ha definito una piattaforma d’attacco sulla questione salariale (oltre l’8% di aumento in paga base, oltre 700 euro di premio annuo per tutti, la conferma del welfare del precedente CCNL, che per concretizzarsi dovrebbe esser portata avanti attraverso una ripresa dispiegata del conflitto). Una questione salariale che è oramai sempre più eclatante, trasversale e unificante delle diverse condizioni del lavoro: un pubblico impiego che ha visto gli stipendi bloccati per quasi un decennio e da due anni adeguarsi unicamente all’IPCA; settori precari e marginali sempre più schiacciati su part time obbligatori e con strutture del salario iperflessibili; una realtà manifatturiera, grande e piccola, attraversata da imponenti processi di ristrutturazione tecnologica, che cambiando mansioni e profili professionali aumentano i ritmi e moltiplicano lo stress lavorativo; un mondo del commercio e dei servizi sempre più segnato da grandi agglomerati che utilizzano lavoro flessibile ed intermittente, diffondendo uno sfruttamento selvaggio e strutture salariali sempre più variabili. La moltitudine del lavoro, cioè, è sempre più frammentata, mentre diventa sempre più profondo il solco che la differenzia dalle altre classi: i processi di crescente sfruttamento e diseguaglianza sospinti dalla stessa dinamica della crisi rendono cioè sempre più saliente la sua condizione sociale.

In questo quadro contraddittorio, nessuno sembra in grado di svolgere un ruolo di ricomposizione del fronte generale. Sia per la propria specificità settoriale sia per la volontà della burocrazia sindacale di recintare ogni lotta nel proprio confine aziendale bloccando possibili dinamiche di propagazione. La gestione in particolare della vicenda Ilva, di portata potenzialmente enorme, è emblematica della politica di collaborazione di classe delle burocrazie e dello scarto tra la loro politica e le potenzialità dirompenti di uno scontro sociale vero, per quanto complesso.

Questa rinnovata differenziazione sociale, quindi, non esprimendosi sul terreno del conflitto e di un’autonoma rappresentanza della classe, si sta esprimendo soprattutto sul versante dell’avversione verso le élite cosmopolite, la difesa dalla comunità, l’identificazione col proprio territorio, la discriminazione verso gli stranieri; in maniera immediata e confusa, spesso al seguito di culture e movimenti sociali della piccola e media borghesia colpita da questa stessa Grande Crisi. Questo rinnovato divario di classe ha cioè gonfiato la crescita e la stabilizzazione del consenso a soggetti e movimenti politici di stampo reazionario che abbiamo prima sottolineato.

L’universo del sindacalismo di base conferma la sua frammentazione ed il rischio di una sua progressiva marginalità nel quadro del conflitto di classe del paese. USB perpetua la sua ulteriore svolta settaria, con una politica autodeclamatoria e tracotante, da una parte di isolamento da fronti ed iniziative più ampie, dall’altra di progressiva incapacità di intervento anche in settori di suo più classico radicamento. Il SICobas, confinato soprattutto nella nicchia della logistica, ha messo in evidenza i limiti di quel fronte politico anticapitalista che ha portato avanti negli ultimi tempi. Nel contempo, lo sciopero del 25 ottobre ha evidenziato la ristrettezza del fronte del sindacalismo di base, con adesioni minime allo sciopero e cortei ridotti nelle principali città. Nella fase di ripiegamento e arretramento della classe, emerge cioè sempre più la difficoltà di praticare un sindacalismo conflittuale fuori o ai margini dalle rappresentanze sindacali, proprio mentre cambiano i processi di lavoro, così come, su un piano più generale, il rischio di molte realtà del sindacalismo di base di focalizzarsi su specifici settori e dinamiche, senza saper ricostruire un punto di vista generale di classe. CUB e SGB, che rientrano pienamente in questo quadro, stanno comunque conoscendo un processo di unificazione positivo, da sostenere e accompagnare nel suo percorso conclusivo (spesso, nei processi di unificazione, il più delicato).

Complessivamente, la burocrazia sindacale, ben più oggi di Confindustria, è il principale punto di appoggio sul piano sociale di un governo sopravvissuto a se stesso.
La CGIL di Maurizio Landini in questi mesi non ha solo confermato la linea strategica della sua maggioranza da diversi decenni (diretta allo sviluppo di una grande alleanza con il padronato); ha anche rilanciato sin dal percorso congressuale la strategia dell’unità burocratica con CISL e UIL. E infine ha anche deciso prima di sostenere apertamente la formazione del governo Conte bis (con un’indicazione decisiva proprio nel momento della sua formazione) e, successivamente, di evitare ogni possibile innesco di un’opposizione di massa nei suoi confronti. Così, il gruppo dirigente della CGIL ha condotto l’iniziativa sul governo, a partire dalla legge di bilancio, da una parte spingendo per un rilancio delle grandi opere (ripresa della domanda aggregata in funzione anticrisi, attraverso investimenti pubblici infrastrutturali), dall’altra rivendicando uno spazio di ripresa salariale attraverso le risorse pubbliche (defiscalizzazione parziale degli stipendi e, ancor peggio perché con un meccanismo regressivo, degli aumenti salariali nazionali e di secondo livello). In questo quadro, non è stata costruita nessuna reale mobilitazione generale del lavoro (eccetto tre imbarazzanti presidi/manifestazioni in Piazza Santi Apostoli, senza sciopero, in giorno feriale e con una totale vaghezza rivendicativa). E non si sono previste neanche mobilitazioni parziali di settore, nonostante alcuni fronti particolarmente eclatanti: il rinvio del rinnovo dei contratti nazionali del pubblico impiego (con FLC e FP incapaci di affrontare qualunque intervento, anche solo virtuale); l’autonomia differenziata (un’ipotesi Boccia che non solo conferma la diversificazione di diritti e servizi universali, ma persino ribadisce l’esclusione del Parlamento dalla discussione di merito delle intese con le Regioni); l’ulteriore grave arretramento sul precariato scolastico, che ha smentito impegni assunti dal precedente governo Conte-Salvini; la necessità di mobilitazioni dei metalmeccanici sul contratto nazionale e sulle numerose crisi industriali del paese. Una CGIL imballata ed imbarazzante, preoccupata principalmente di non premere socialmente sul governo, per non rischiare di imballarne ulteriormente la maggioranza e quindi magari farlo cadere.

In questo quadro, l’apertura nell’autunno di una nuova fluidità degli schieramenti congressuali in CGIL non ha aperto allo sviluppo di una dialettica tra i settori moderati e quelli più radicali della maggioranza (a partire dalla relazione col governo e gli elementi di merito della difesa del salario e delle condizioni del lavoro). Anzi, ha segnato un’ulteriore grave capitolazione dei settori landiniani all’implementazione di una linea politica moderata, alla piena conferma della ricerca di un fronte con i settori padronali, al blocco di ogni dinamica conflittuale e di ogni movimento di massa del lavoro. In questo quadro complessivo, la CGIL sta conoscendo un’ulteriore involuzione: da una parte gli organismi dirigenti diventano sempre più platee funzionali ai discorsi del segretario generale, perdendo ogni relazione con la linea politica concretizzata dalle strutture esecutive; dall’altra si degrada sempre più anche il rapporto politico e sociale con la classe (pur mantenendo un tessuto di delegati e servizi che rende questo degrado ancora poco visibile).
In questo quadro, sono sempre più evidenti le fragilità di Riconquistiamo Tutto! (area congressuale di opposizione in CGIL), ma nel contempo anche l’importanza del suo ruolo in questa fase. Per questo, nella prossima riunione del CC sarà utile affrontare una discussione specifica sulla CGIL, le dinamiche della sua corrente classista e conseguentemente le priorità di intervento di compagni e compagne del PCL in quel sindacato.
È però importante e urgente, nel quadro della dinamica politica e sociale in corso, sottolineare alcuni elementi. RT! è riuscito a sopravvivere con grandi difficoltà all’ultimo congresso CGIL, in un acceso scontro interburocratico sul segretario generale e una stabilizzazione della sua profonda deriva burocratica (dalle inverosimili partecipazioni ai congressi di base alle sperequazioni nelle agibilità dei presentatori, dagli ostacoli al secondo documento ai veri e propri brogli in molteplici realtà). Il risultato ufficiale, nazionalmente di poco superiore al 2%, ha certificato l’indebolimento dell’area nei territori e nelle categorie. E in questo indebolimento generale, è evidente un indebolimento del PCL (in particolare in tre regioni dove avevamo un ruolo centrale: Veneto, Abruzzo e Calabria).
In questo quadro, nel quadro dell’involuzione della CGIL come delle più complessive dinamiche di classe, RT! ha evidenziato in questi mesi una marcata difficoltà a sviluppare il suo intervento. Inoltre, in alcune occasioni è emersa incertezza nel tenere un baricentro di opposizione (ad esempio in occasione della prima Assemblea Generale dopo il congresso di Bari). Come sono emerse tendenze a rimettere in discussione quell’impostazione pluralista che eravamo riusciti ad imprimere all’area dopo la gestione ipercentralizzata e personalistica di Giorgio Cremaschi (a partire da un ruolo ed un’esperienza sindacale di rilievo) e poi di Sergio Bellavita (molto più debole sul piano personale e politico). Tendenze emerse in diversi episodi: nel respingere e contrastare l’assunzione di una posizione netta contro i comportamenti antidemocratici dei settori piaggisti al congresso FIOM di Pisa; nell’imporre l’elezione del portavoce nel quadro dell’assemblea nazionale (con metodi assemblearisti e una partecipazione casuale), invece che come nelle prassi recenti all’interno del coordinamento nazionale; nel restringere gli spazi plurali sul sito dell’area, prima eccezionalmente nella fase congressuale ed a fronte di gravi (ed irresponsabili) accuse di complicità nei brogli, poi bloccando un testo contestato in attesa di una più stabile ridefinizione delle regole. Elementi che oggi rischiano di esplodere sulla richiesta di inserimento nel coordinamento nazionale (tramite una sostituzione nel direttivo lombardo della CGIL) del compagno Franco Grisolia, nel quadro di un gruppo dirigente dell’area mal strutturato, in un dibattito che rischia di degenerare in veti e personalismi a causa dell’atteggiamento autocentrato e non democratico della compagna Eliana Como e dei compagni a lei più vicini, in particolare, anche se non solo, di SA. Atteggiamento che si è espresso anche nella riunione regionale del Veneto. È inoltre importante tener presente il composito quadro politico dell’area (pur nelle sue ridotte dimensioni), in cui oltre metà dei quadri sindacali e dei gruppi dirigenti non appartiene a nessuna delle organizzazioni di matrice trotskista che l’egemonizzano, come la dinamica impressa da SCR, che ha avviato processi evidenti di sganciamento (a partire dalle sue oggettive posizioni di relativa forza in alcune grandi fabbriche, categorie e territori, anche con diversi funzionari) pur non mettendo per ora politicamente o organizzativamente in discussione l’area.
In questo quadro è fondamentale per il PCL condurre una battaglia tesa alla salvaguardia di un’area classista in CGIL, e soprattutto dello sviluppo della sua azione conflittuale nella classe, come di un suo profilo plurale e democratico (nei limiti di un’area classista in un sindacato di matrice burocratica). Un intervento cioè in grado di bilanciare il deciso contrasto alle tendenze involutive dell’area, lo sviluppo di una proposta programmatica transitoria classista e rivoluzionaria, l’impulso a costruire interventi ed esperienze di lotta centrati su coordinamenti e comitati di lotta (come negli ultimi mesi nell’area milanese della FLC intorno alla questione dei precari).


FRONTE SOCIALE E MOVIMENTO DELLE SARDINE

La fragilità estrema del governo, unita all’assenza di politiche d’urto mobilitanti e soprattutto alla cintura protettiva eretta attorno ad esso da parte della burocrazia sindacale, sono un ostacolo sulla via di una ripresa di mobilitazione. Più complesso è il quadro dei movimenti a carattere prevalentemente democratico e non direttamente classista. La loro dinamica è contraddittoria. Contro il governo Salvini-Di Maio, ma soprattutto contro Salvini ministro degli Interni, si era levata nello scorso anno una stagione di mobilitazioni importanti sul terreno antirazzista, femminista, antifascista. Mobilitazioni certo circoscritte ad una minoranza della società, incapaci per la loro natura di ribaltare i rapporti di forza sociali complessivi tra le classi, e tuttavia segnate da un potenziale di radicalizzazione politica.
La caduta del governo precedente ed in particolare del ministero degli interni Salvini ha privato quelle mobilitazioni del principale catalizzatore, e al tempo stesso ha alimentato nella fase iniziale aspettative e illusioni nel cambio politico di questa estate. La risultante è stata il netto arretramento dei livelli di mobilitazione di alcuni movimenti di quella stagione. Sia la manifestazione per il ritiro del decreto sicurezza del 9 novembre sia la manifestazione del movimento delle donne del 23 novembre hanno registrato presenze molto più ridotte di un anno fa, pur in presenza formalmente di ragioni e rivendicazioni identiche. È un riflesso del cambio politico di scenario.
Tuttavia, contraddittoriamente, proprio il terreno democratico vede l’irruzione del cosiddetto movimento delle sardine. Un movimento esploso in tempi brevissimi con una propagazione accelerata. Un movimento imprevedibile, come spesso accade nelle dinamiche di massa. Per molti aspetti un movimento paradossale, perché si vive e proietta come opposizione al salvinismo nel momento stesso in cui Salvini e la Lega sono opposizione. È un movimento di opposizione al governo che si teme e (ancora) non c’è, e al tempo stesso afono verso il governo che c’è. Il movimento ha dimensione di massa, di proporzioni più ampie dei movimenti democratici della passata stagione. Ha carattere nazionale, al Nord e al Sud. Coinvolge un settore di giovani e di giovanissimi, spesso lo stesso ambiente generazionale del movimento Fridays for Future. Il suo immaginario e coscienza è estremamente arretrato. Il suo vocabolario è povero, per lo più estraneo ai temi del lavoro, spesso evanescente sullo stesso terreno democratico in termini di rivendicazioni e obiettivi. Non nasce su un terreno rivendicativo e tematico (come il movimento Fridays For Future, il movimento antirazzista, il movimento delle donne o antifascista), nasce sul puro terreno della demarcazione anti-Salvini, in contrapposizione al suo disegno di “pieni poteri” e alla sua postura invadente e autoritaria. Il suo fine sembra risolversi nel movimento stesso, nella pacifica invasione dello spazio pubblico, in un protagonismo di giovane generazione vissuto confusamente come argine alla reazione.
L’arretratezza politica e indeterminatezza del movimento delle sardine favoriscono o possono favorire il tentativo egemonico del PD sul terreno del richiamo elettorale e del controllo stesso del movimento. Tuttavia il movimento non è la longa manus del PD, e non ha nel PD il proprio riferimento politico. Più in generale, il movimento delle sardine non ha alcun riferimento politico diretto. Il movimento dei girotondi, in opposizione a Berlusconi, gravitava attorno ai DS e alla loro sinistra (Cofferati). Il movimento del popolo viola gravitava prevalentemente attorno a Di Pietro. Al pari dei movimenti democratici della precedente stagione politica, l’attuale movimento delle sardine non ha invece riferimenti politici egemoni, per via della irriconoscibilità sia del PD che della sinistra politica. È un movimento figlio del deserto politico e sociale: dell’arretramento del movimento operaio e della rimozione delle sue rivendicazioni; del crollo della vecchia sinistra politica; della crisi dei tradizionali partiti borghesi liberal-progressisti e della loro presa sociale; dell’egemonia populista anche sul versante democratico (“via le bandiere e i partiti”). Il movimento delle sardine è una forma di occupazione di questo vuoto e al tempo stesso il suo specchio.
Nessun movimento va confuso con la sua autorappresentazione ideologica, ma indagato nel suo contenuto reale. Questo movimento ha nella contrapposizione alla destra, nella presenza di piazza, nel protagonismo giovanile la propria valenza progressiva. Volgere le spalle a questa dinamica per via della (profonda) arretratezza della sua coscienza rappresenterebbe una scelta settaria, tanto più sbagliata in uno scenario politico così negativo come quello italiano. La nostra scelta politica deve essere opposta. Far leva sulla valenza progressiva del movimento per dargli un altro contenuto, per portarvi un riferimento classista, una prospettiva alternativa, in contrapposizione aperta a tutti i tentativi, già in atto, di rinchiuderlo entro il pendolo dell’alternanza tra democratici e reazionari. Il nostro è ovviamente un piccolissimo partito, ma essenziale è il metodo di approccio: non la declamazione identitaria astratta ma nemmeno l’autocensura preventiva. Assumendo la contrapposizione alla reazione come elemento comune di linguaggio e relazione col movimento, partecipando nelle forme possibili alle sue manifestazioni, occorre cercare di introdurvi riferimenti di classe, ponendo il comune richiamo democratico in contraddizione col PD, con l’attuale governo, con la sua salvaguardia delle misure di Salvini (decreti sicurezza) e di tutte le leggi antioperaie degli ultimi decenni, con l’attuale organizzazione della società. E presentando nelle forme più semplici la nostra idea di alternativa anticapitalista. A questo fine si tratta di intervenire nelle manifestazioni con specifici volantini di partito mirati su quel tipo di interlocuzione, con altri strumenti di propaganda che evocano riferimenti di classe (cartelli specifici su rivendicazioni sociali), e anche cercando ove possibile di favorire il contatto diretto tra i giovani e settori di classe protagonisti di vertenze e scontri sociali. Peraltro nessun movimento, tanto più se ampio, presenta un corpo omogeneo. Nel nuovo movimento giovanile convivono inevitabilmente diversi livelli di consapevolezza e di radicalità, pur nel quadro di una complessiva arretratezza. Il nostro obiettivo è avvicinare al progetto di classe e anticapitalista l’avanguardia più sensibile e avanzata di ogni movimento. Vale anche per il movimento delle sardine.


L’ASSEMBLEA UNITARIA DELLE SINISTRE DI OPPOSIZIONE DEL 7 DICEMBRE

In questo quadro generale si pone l’iniziativa dell’assemblea nazionale unitaria delle sinistre di opposizione, promossa da PCL, PCI, Sinistra Anticapitalista, minoranza del PRC, con l’adesione nazionale di Potere al Popolo e la partecipazione nazionale del PRC. Una iniziativa che ha inoltre raccolto un quadro variegato di adesioni di collettivi locali gravitanti nell’ambito di avanguardia.

L’assemblea del 7 dicembre è nata dall’iniziativa intrapresa dal PCL attorno all’appello per una iniziativa unitaria della sinistra di opposizione. Il terreno su cui si muove è quello dell’unità d’azione tra soggetti diversi della sinistra di classe obiettivamente collocati all’opposizione del nuovo governo, nel pieno rispetto della loro autonomia, fuori dunque da ogni logica di cartello elettorale e/o di nuova soggettività politica. Questa impostazione non era scontata ed è stata difesa dal nostro partito durante il percorso di costruzione dell’iniziativa stessa.

L’iniziativa del 7 dicembre ha aperto contraddizioni importanti nel campo della sinistra riformista, in Potere al Popolo e nel PRC. Nel primo caso con l’opposizione del centro sociale napoletano Je so’ pazzo e della sua filiera nazionale. Nel secondo caso per l’aperta adesione e copromozione politica dell’evento da parte della minoranza di sinistra di Rifondazione a fronte della iniziale collocazione anfibia della maggioranza del PRC verso il nuovo governo. Su entrambi i fronti il nostro partito ha lavorato per la più ampia unità d’azione nella chiarezza della collocazione politica di ciascuno, opponendosi alle pregiudiziali verso il possibile coinvolgimento del PRC in corso d’opera ma anche alle frettolose assoluzioni preventive verso il PRC e le sue contraddizioni, e la pretesa di coinvolgerlo sin dall’inizio in un processo che nasceva su altre basi, sviluppate insistentemente da Sinistra Anticapitalista. La nostra impostazione, che ad oggi ha prevalso, è quella che ha consentito al processo di superare i ripetuti intoppi e di guadagnare l’assemblea del 7 col più ampio coinvolgimento di forze ma anche con la distinzione politica tra le forze aderenti all’appello e quelle partecipanti.

Il nostro appello originario si era rivolto a un ampio spettro di forze politiche e sindacali dell’avanguardia di classe. I soggetti sindacali contattati (opposizione CGIL, SGB, CUB, SICobas, USB) hanno mostrato disponibilità a interloquire ma non ad aderire e promuovere l’iniziativa. Di conseguenza l’assemblea del 7 dicembre è stata promossa da organizzazioni politiche di partito chiaramente riconoscibili nella loro identità. Il nostro partito ha difeso e valorizzato, nelle condizioni date, questo fatto politico, contro ogni logica di svalutazione dei partiti. Al tempo stesso, ci siamo posti unitariamente l’esigenza di coinvolgere nell’assemblea del 7 dicembre, in veste di interlocutori, i soggetti disponibili del sindacalismo di classe e di alcune importanti realtà di lotta.

Il senso generale, la ragione d’essere dell’iniziativa del 7 dicembre è quella di promuovere una convergenza mirata sul piano dell’azione tra diversi soggetti politici e sindacali dell’avanguardia in funzione della ricomposizione di un fronte unico di classe e di massa. Un’azione dunque di controtendenza nell’attuale scenario di riflusso e frammentazione del movimento operaio. E al tempo stesso di interlocuzione con le realtà di movimento non classiste, prevalentemente giovanili, per portarvi un riferimento di classe.

Lo sbocco dell’assemblea, già concordato nella sostanza tra le organizzazioni promotrici e aderenti, sarà lo sviluppo di campagne comuni su temi sociali e politici che corrispondono alla situazione obiettiva, definiscono una linea di opposizione classista al governo e alla destra reazionaria, introducono la problematica dell’alternativa. Principalmente: una campagna per la riduzione generale dell’orario di lavoro a parità di paga, una campagna per la nazionalizzazione delle aziende che licenziano o inquinano, una campagna per la cancellazione dei decreti sicurezza, una campagna per il ritiro delle truppe e delle missioni militari.
Su ognuno di questi terreni saranno promosse iniziative specifiche, nazionali e locali, col patrocinio comune. Su ognuno di questi terreni convivono tra le stesse forze promotrici del 7 dicembre, ed in particolare tra alcune di queste, posizioni diverse, riflesso di diverse impostazioni politico-programmatiche (riformiste nel caso del PCI, centriste nel caso di SA). Dentro l’iniziativa comune, il nostro partito porrà al confronto su ognuno di questi temi e terreni la propria specifica logica transitoria e rivoluzionaria, centrata sulla prospettiva del governo dei lavoratori. In forma sempre dialogante ma senza autocensure, a difesa della propria autonomia.

Sul terreno organizzativo lo sbocco dell’assemblea nazionale del 7 dicembre, anch’esso condiviso, sarà la formazione di un coordinamento nazionale dell’azione unitaria, aperto al pieno coinvolgimento di tutte le organizzazioni disponibili a coinvolgersi e impegnarsi sul terreno dell’unità d’azione attorno ai contenuti proposti, e dunque anche al di là del perimetro originario delle organizzazioni promotrici o aderenti. Un coordinamento capace di proiettarsi in forma flessibile sui territori locali con l’obiettivo di ampliare l’arco delle forze coinvolte e favorire la più ampia partecipazione militante.

L’assemblea del 7 dicembre ha una valenza importante per il nostro partito. Riflette una impostazione politica che ha sempre combinato la più rigorosa difesa della nostra autonomia programmatica con la ricerca più ampia del fronte unico e dell’unità d’azione tra le forze di classe e di avanguardia. Al tempo stesso favorisce e allarga la superficie di contatto tra il nostro partito e il corpo attivo e di riferimento delle altre sinistre di opposizione, rompendo il nostro isolamento, e ampliando gli spazi di influenza delle nostre posizioni e proposte politiche. Il quadro dell’unità d’azione non è semplicemente un fatto di posizionamento, ma anche un terreno di caratterizzazione e battaglia politica. È un fatto importante per il rilancio del nostro partito e il suo processo di costruzione.

Per tutte queste ragioni è essenziale che tutti i militanti del PCL e il più ampio numero dei nostri iscritti sia presente all’assemblea del 7 dicembre, al fianco dei militanti delle altre organizzazioni presenti, con una propria riconoscibilità.


1 dicembre 2019

Partito Comunista dei Lavoratori

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