OTTO PUNTI DI CLASSE PER L’OTTO MARZO – #2 UGUALE LAVORO UGUALE SALARIO

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A chi giovano lavoratori discriminati per sesso, età e provenienza geografica?

È entrata nella vita economica per portare un po’ d’aiuto al proprio marito: il modo di produzione capitalistico la trasformata in una sleale concorrente; voleva aumentare il benessere della famiglia, e ne ha peggiorato la situazione; la donna proletaria voleva guadagnare perché il destino dei suoi figli fosse migliore e viene quasi sempre strappata dalle loro braccia. […] Per queste ragioni la lotta d’emancipazione della donna proletaria non può essere simile a quella che conduce la donna borghese contro l’uomo della sua classe; al contrario, la sua lotta è la lotta insieme all’uomo della sua classe contro la classe dei capitalisti.

(K. Zetkin, Die Arbeiterinnen- und Frauenfrage der Gegenwart, 1889)

In Italia le donne guadagnano mediamente il 71,7% del salario degli uomini, ma con molte differenze nei settori economici e nelle diverse qualifiche: un’operaia ha una retribuzione pari al 67,6% dell’operaio, una donna quadro guadagna l’85,8% dello stipendio lordo di un lavoratore maschio con la stessa qualifica. La parità salariale verrà raggiunta tra 118 anni. Le donne costituiscono la maggioranza della popolazione povera. È una discriminazione inaccettabile, non solo perché ha una componente di genere, ma perché questo squilibrio va a danno dell’intera classe lavoratrice. È il gioco sporco dei padroni, il dumping salariale, ossia mettere i lavoratori in competizione tra loro per poter abbassare ulteriormente i salari. Inoltre, mettendo le donne contro gli uomini, il padronato ottiene un altro vantaggio: disgregare ulteriormente la classe lavoratrice già divisa e frammentata e spingere le donne dentro casa, a svolgere lavoro “improduttivo”. È l’unità della lotta degli sfruttati che impensierisce i padroni. In questo senso le rivendicazioni femminili dell’otto marzo non devono e non possono rimanere confinate al solo ambito femminile. Migliorare i salari delle donne significa anche migliorare quello degli uomini: la competizione salariale va ad esclusivo vantaggio di chi sfrutta; finché ci sarà qualcuno che lavora per meno, siano essi donne, migranti (o in altri tempi persino i bambini), tutti saremo obbligati a lavorare al ribasso con grande gioia della classe padronale.

Le riforme sul lavoro hanno precarizzato, creato disoccupazione, ridotto i salari alla fame. C’è da chiedersi come sia possibile per le donne proletarie sottopagate, e in un quadro generale così drammatico, rendersi economicamente indipendenti dall’uomo, condizione fondamentale per liberarsi di qualsiasi forma di schiavitù famigliare  o violenza  subita,  se non si rivendica  con forza  il recupero di quei diritti  necessari alla propria indipendenza: salari adeguati al reale costo della vita, abbassamento dell’età pensionabile, riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario per creare occupazione… Ricordiamo inoltre che la perdita di questi diritti è avvenuta di concerto coi sindacati, schierati sempre dalla parte del padrone e tra i cui dirigenti spiccano donne  borghesi  come la  Camusso. Perché questi diritti sono stati abbattuti? Oltre alla  nota ragione dell’aumento dei profitti da parte padronale, che sta facendo pagare ai più poveri la crisi del capitalismo e colpisce entrambi i sessi, tutte le razze e non guarda in faccia a nessuno, le donne proletarie svolgono anche altre funzioni  sociali utili al sistema dalle quali si può trarre profitto, esse vengono sfruttate non solo come lavoratrici ma come sostitute di uno stato sociale. Perché andare a lavorare per un salario da fame che spesso non basta neppure per coprire la retta di un asilo nido? Meglio stare a casa.
A lavorare gratis.

COSA CHIEDIAMO

  • La parità salariale fra uomini e donne. A uguale lavoro, uguale salario! Le donne prendono in media il 70% del salario di un uomo. Perché? Queste forme di sessismo retributivo non sono casuali, sono generate dal sistema allo scopo di innescare meccanismi di competizione fra lavoratori in uno sporco gioco al ribasso salariale per aumentare i profitti degli sfruttatori, mantenere disgregata la classe operaia e scongiurare così ogni pericolo di rivolta.
  • L’indennità di disoccupazione per tutti i lavoratori e per tutte le donne che vengono estromessi dal mondo del lavoro. In tempo di crisi sono le donne a essere buttate fuori per prime. Le donne, da sempre, sono ipersfruttate in tempi di guerra o in condizioni di straordinarie necessità industriali o in particolari settori. E quando non servono più possono tranquillamente essere estromesse dalla produzione, tanto poi verranno adeguatamente sfruttate a casa al posto del welfare.
  • Il rafforzamento degli ammortizzatori sociali. Basta soldi pubblici sotto forma di incentivi alle aziende che chiudono e delocalizzano, non per la crisi, ma per fare più profitti! Basta tavoli concertativi dove a perderci sono solo i lavoratori. Gli ammortizzatori sociali vanno estesi e ampliati per ridurre l’impatto sociale della perdita del lavoro, non come toppa per i padroni.
  • Riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario. Si tratta dell’unica misura sensata per ridurre la disoccupazione senza scaricarne i costi sulla collettività ma su coloro che sulla disoccupazione fanno profitto, ossia la classe padronale. Maggiore disoccupazione significa maggiore offerta e maggiore competizione tra lavoratori, e quindi salari più bassi. Lavorare meno e lavorare tutti… e tutte!
  • La reintroduzione della scala mobile per l’adeguamento dei salari al reale costo della vita. Prestiti, mutui, debiti sono la realtà delle famiglie proletarie. Il salario deve essere automaticamente adattato al costo della vita, pena una perdita costante del potere di acquisto e un impoverimento progressivo. Dal 2002 al 2012 una famiglia di quattro persone ha subito una stangata, per aumento dei prezzi, rincari delle tariffe, manovre economiche, caro-affitti, caro-carburanti, di circa 10.850 euro.

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