OTTO PUNTI DI CLASSE PER L’OTTO MARZO – #1 IL LAVORO È AUTODETERMINAZIONE!

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Il reddito di cittadinanza non è abbastanza!

Apparirà allora che l’emancipazione della donna ha come prima condizione preliminare la reintroduzione dell’intero sesso femminile nella pubblica industria…
(F. Engels. L’origine della famiglia della proprietà privata e dello Stato (1884)

Uno dei fondamentali princìpi diffusi dal capitalismo è l’accettazione della povertà come fattore intrinseco al sistema e inevitabile stato naturale delle cose. Questo principio è utile al capitale per continuare a mantenere e riprodurre la povertà come strumento di sfruttamento degli esseri umani, basato sulla proprietà privata e finalizzato all’arricchimento di pochi. In una società dove chi è povero appartiene al più ricco come fosse un oggetto non c’è da stupirsi che le donne, pur rappresentando la maggioranza della popolazione mondiale, siano assoggettate al sistema capitalista, vivano in condizioni economiche più disagiate perché sfruttate dallo stato, dal padrone e anche dagli uomini, subiscano violenze di ogni sorta dentro e fuori la famiglia. Rigettiamo con forza ogni pensiero politico produca la povertà in nome del profitto e ogni pensiero politico che accetti la povertà come un dato di fatto, rigettiamo inoltre con forza tutte quelle soluzioni intermedie che non risolvono il problema alla radice e di sicuro non impensieriscono gli sfruttatori. Basta disperdere le lotte delle donne in mille rivoli che presi singolarmente sono condannati all’insignificanza. È ora di riconoscere che i problemi delle donne hanno un unico comune denominatore: la società patriarcale e in ultima analisi lo sfruttamento da parte del sistema capitalista. Lottiamo invece per una società libera dalla povertà e dallo sfruttamento, vogliamo le donne libere dall’uomo e tutti e due liberi dal capitale.  Per queste ragioni riteniamo di primaria importanza la indipendenza economica delle donne dagli uomini come il primo passo verso la liberazione dalla schiavitù imposta da questo sistema economico e la necessità imminente di recuperare tutti quei diritti che ci sono stati tolti dalle riforme del lavoro e dello stato sociale.

La soluzione è un reddito di cittadinanza o autodeterminazione? Assolutamente no. Si finisce così per evitare il punto fondamentale, ossia che il lavoro è un diritto, per le donne ancora di più. È il lavoro, non una generica assistenza pubblica (elemosina?), che garantisce alle donne la possibilità di autodeterminarsi. Il reddito di cittadinanza non è altro che uno specchietto per le allodole: state a casa, lo stato vi fornirà il minimo indispensabile per vivere (in miseria) e continuare a consumare per fare girare l’economia dei profitti dei padroni (non a caso sono le associazioni degli industriali stessi a caldeggiare questa misura in alcuni paesi europei). Non più produttori quindi, ma solo consumatori. Il reddito di cittadinanza confina comunque le donne entro le quattro mura domestiche, la obbliga comunque a fungere da welfare occulto, non dà diritti di alcun tipo, cristallizza i rapporti tra sfruttati e sfruttatori all’interno della società.

COSA CHIEDIAMO

  • L’abolizione del Jobs Act che ci pone in condizione di continuo ricatto da parte dei padroni e non ci garantisce la necessaria indipendenza economica dalla famiglia naturale o famiglia acquisita. Una legge che ha cercato di venderci lo smantellamento dei diritti (abolizione dell’art 18) sotto la falsa egida di assunzioni con contratto a tempo indeterminato la cui entità si è rivelata molto modesta rispetto invece ai licenziamenti senza giusta causa e all’utilizzo spropositato di forme contrattuali precarie come voucher o contratti a termine. Ciò che è risultato invece rilevante sono i 10 miliardi di euro di sgravi fiscali alle aziende che sono venuti meno nelle  casse dell’INPS e che i lavoratori dovranno pagare. In poche parole si finge di combattere la precarietà precarizzando anche i contratti stabili.
  • Abolizione di ogni forma di precarietà e di flessibilità, che è solo la flessibilità del padronato di sfruttare i lavoratori come una merce. Abolizione dei voucher, delle false partite iva, dei tirocini non pagati, del lavoro in somministrazione, la chiusura di quella vergognosa forma di caporalato legalizzato che sono le agenzie interinali, imprese che fanno profitti sulla pelle dei disoccupati. Il lavoro senza diritti è schiavitù.
  • La reintroduzione ed estensione dell’articolo 18. L’abolizione dell’articolo 18, passata sotto il silenzio e la complicità dei sindacati, ha dato mano libera al padronato per licenziare impunemente e ha trasformato i lavoratori e le lavoratrici in merce. La possibilità di licenziare agevolmente anche per motivi inconsistenti rende ancora più forte il padrone e più ricattabile il lavoratore all’interno del rapporto di lavoro, dando origine a vere proprie forme di schiavitù salariata. Non è più possibile chiedere condizioni di lavoro migliori, lottare per i propri diritti, lamentarsi per eventuali molestie o mobbing. Il ricatto sui lavoratori è totale. Ma reintrodurre l’articolo 18 non basta. È necessario introdurlo anche in tutte quelle realtà medio-piccole che vedono impiegate in particolare le donne. Non ci sono lavoratori di serie A e di serie B. Senza una tutela seria del posto di lavoro, senza il ripristino di un diritto fondamentale come l’articolo 18, tutte le chiacchiere sulla tutela della maternità sono aria fritta.
  • Lotta alla schiavitù, al caporalato e alla violenza fisica e sessuale di cui sono vittime molte lavoratrici, tra cui anche le donne immigrate (badanti, braccianti) provenienti da paesi molto arretrati o in guerra, le quali vengono considerate come oggetti, rinchiuse come animali e sottoposte ad ogni forma di violenza sotto gli occhi compiacenti di sindacato e forze dell’ordine.
  • La reintroduzione del sistema pensionistico retributivo e non contributivo. La pensione, come lo stipendio, deve essere equiparata al reale costo della vita per garantirci l’indipendenza economica e la possibilità di curarci adeguatamente, sempre più spesso genitori anziani con redditi molto bassi finiscono a carico di figli altrettanto poveri, creando situazioni a volte insostenibili anche dal punto di vista psicologico e relazionale.
  • L’abbassamento dell’età pensionabile sulla base del riconoscimento ed ampliamento di tutti quei lavori maggiormente usuranti. Il capitale e lo stato spremono i lavoratori fino all’ultima goccia di sangue. È paradossale che le donne proletarie, le quali svolgono in genere lavori usuranti e sottopagati, nell’età in cui il lavoro dovrebbe essere terminato si trovino spesso ad accudire famigliari e nipoti mentre parallelamente lo stato taglia i servizi pubblici ad anziani e bambini privatizzandoli, rendendoli così economicamente inaccessibili alle classi sociali più deboli e privandoli di fatto del diritto alla salute e all’assistenza.

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