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Spunti di antirazzismo

Razzismo e capitalismo: le carenze della sociologia borghese

di Fabiana Stefanoni (da Marxismo Rivoluzionario, ottobre 2005, anni III, nr. 7)

Cercare di abbozzare alcune linee guida nell’interpretazione del cosiddetto fenomeno razzista richiede, in via preliminare, lo sgombrare il campo da un vizio di fondo di gran parte delle indagini sociologiche contemporanee: la tendenza a considerare il razzismo come una teoria, una concezione del mondo suscettibile di tramutarsi in pratiche e politiche di esclusione più o meno violente. Sfogliando la copiosa letteratura sull’argomento, ci s’imbatte in una ridda di periodizzazioni e ricostruzioni storiche che, nella migliore delle ipotesi, considerano le determinanti storiche e sociali come elementi meramente di contorno, da prendere in considerazione senza assegnare ad essi un reale valore esplicativo. Uno dei quesiti con cui, più di frequente, si confrontano gli accademici di tutto il pianeta ben evidenzia la tendenza a trattare il razzismo come un concetto che passa immune tra le tempeste della storia; che, nonostante l’evoluzione della struttura economica e dei rapporti tra le classi, può legittimamente attribuirsi a questo o quel fenomeno appartenenti a contesti tra loro decisamente eterogenei. Mi riferisco alla domanda che spesso funge da prologo ai trattati sull’argomento: “quando si afferma la nozione di razza”?

Un classico sull’argomento, II razzismo in Europa di G. L. Mosse, scritto negli anni Settanta, situa l’origine del “pensiero razzista” nell’epoca dei Lumi: il razzismo si riduce ad un sottoprodotto del razionalismo illuminista, con le prime esplicite teorizzazioni della superiorità della razza bianca rispetto ai neri e agli ebrei. La ricostruzione storica – o filastrocca d’opinioni – che ne segue prende in considerazione il fenomeno esclusivamente dal lato delle concezioni filosofiche, religiose, culturali. Bussano all’orecchio le parole di Marx ed Engels che, due secoli fa, nell’Ideologia tedesca, stigmatizzavano la mistificazione della realtà che si gen­era quando “nel considerare il corso della sto­ria si svincolano le idee della classe dominante dalla classe e si rendono autonome, se ci si limita a dire che in un’epoca hanno dominato queste o quelle idee, senza preoccuparsi delle condizioni della produzione e dei produttori di queste idee”.

Speculare e l’errore di chi, pur ritenendo superato l’approccio suddetto, di fatto ne riproduce il vizio di fondo andando alla ricerca, nel corso della storia dell’umanità, di atti razzisti: e cosi che finiscono in uno stesso calderone la conversione degli ebrei di Minorca del 417 d.C. e il nazionalsocialismo, fenomeni che appartengono a contesti tanto diversi da rendere bizzarro qualsiasi tentativo di comune classificazione. Ciò che manca e l’inquadrare il fenomeno del razzismo contemporaneo nella specificità del contesto capitalistico in primo luogo, nelle specifiche fasi storiche del capital­ismo in seconda istanza.

Razzismo e colonialismo 

Se è scorretto affermare che il razzismo nasce con il capitalismo – dato che fenomeni d’intolleranza razziale, com’è evidente, costellano l’intero arco della storia – e tuttavia vero che il razzismo assume un significato nuovo e assolutamente peculiare con l’instaurarsi del modo di produzione capitalistico. Come ho detto, l’errore che sta alla base di molte ricostruzioni storiche consiste nello sganciare il razzismo dal contesto capitalista che lo definisce, applicandolo illegittimamente a tutte le epoche della storia. Per azzardare un’analogia, e la stessa trasfigurazione della realtà che Marx imputa all’economia politica, che rappresenta i rapporti della produzione borghese (ad esempio, la rendita nell’analisi ricardiana) come categorie eterne. La proprietà privata dei mezzi di produzione e la connessa oppressione di classe rendono necessaria alla borghesia, in modo diverso nelle diverse fasi, l’utilizzo e la costruzione di una sovrastruttura ideologica per la conservazione del proprio dominio. II razzismo, in un contesto capitalistico, non può che sottostare a questa legge generale.

Non è un caso che il cosiddetto “razzismo scientifico”, cioè quelle teorie fondate sull’idea di una differenza essenziale inscritta nella natura dei vari gruppi umani, cominci a diffondersi con l’espansione coloniale europea prima, per poi conoscere un ulteriore successo con la successiva “fase imperialista”. Ovviamente, l’intolleranza razziale non e un fenomeno nuovo: già nelle colonie inglesi nell’America del Nord lo sfruttamento degli schiavi provenienti dall’Africa era prassi comune e si conciliava con le teorizzazioni di marca cristiana sull’inferiorità dei non convertiti. Ma è solo con il XIX secolo, con le grandi conquiste coloniali dell’Inghilterra prima, della Francia e della Germania poi, che si arriva alla giustificazione ideologica del fenomeno. Emblematico è il successo che nella seconda meta dell’Ottocento riscuote in Francia l’opera di Arthur de Gobineau, Sull’ineguaglianza delle razze umane, che elabora una teoria della decadenza in base alla quale l’umanità rischia la rovina totale a causa della mescolanza delle razze. Similmente, Gustave Le Bon propone una classificazione delle razze umane rigidamente divise in superiori (indoeuropee), intermedie (semitiche) e primitive; altri autori sponsorizzano un’antropologia positivistica e scientista basata sul rigetto del “diverso”. Al di fuori della Francia, sia in Inghilterra che in Germania, si diffondono teorie pseudoscientifiche che cercano nelle scienze naturali la gius­tificazione dell’oppressione coloniale, tentando di legittimare dal punto di vista teorico l’esistenza di “razze umane”. Il razzismo, nel XIX secolo, e l’ideologia dello sfruttamento selvaggio delle colonie.

Connesso alla lotta per la ripartizione coloniale è il trapasso, a partire dell’ultimo ventennio del secolo, alla fase propriamente imperialista del capitalismo. Come ha ben evidenziato Lenin in L’imperialismo come fase suprema del capi­talismo, “il trapasso del capitalismo alla fase di capitalismo monopolistico finanziario e collegato a un inasprimento della lotta per la ripar­tizione del mondo”. La formazione di monopoli permette la “definitiva sostituzione del cap­italismo moderno all’antico”, fa sì che l’esportazione di capitale assuma proporzioni gigantesche (in particolare agli inizi del XX secolo): l’epoca dei monopoli e l’espressione del dominio del capitale finanziario. Quest’ultimo, come sottolinea Lenin nello stesso scritto, pur essendo in grado di assoggettarsi anche paesi in possesso della piena indipendenza politica, trova maggiore comodità e maggiori profitti “allorché tale assoggettamento e accompagnato dalla perdita dell’indipendenza politica da parte dei paesi e popoli asserviti”. Quello del capitale finanziario e quindi un colonialismo sui generis, cui la “sovrastruttura extraeconomica” contribuisce acuendo l’impulso verso le conquiste coloniali. E in questo quadro che si spiega la diffusione del “darwinismo sociale”, dottrina in base alla quale la concorrenza tra i gruppi umani e sociali e regolata dalle stesse leggi della selezione naturale: è giusto che le classi oppresse e tutti gli esseri umani “inferiori” (neri, donne, omosessuali) soccombano per favorire la sopravvivenza dei “più adatti” ai fini della conservazione della specie. Nella sua variante più specificamente razzista, il darwin­ismo sociale – in realtà assai lontano dalle idee dello stesso Darwin – sostiene che il motore della storia sia la lotta per la sopravvivenza tra le differenti “razze”, lotta in cui ogni prevaricazione e permessa per l’autoconservazione. Trova quindi nuova linfa in questi anni, illegit­timamente trasponendo le teorie darwiniane sull’evoluzione alla sfera dei rapporti sociali, il cosiddetto razzismo scientifico, che cerca di dimostrare l’esistenza di “razze” le cui caratteristiche biologiche o somatiche corrisponderebbero ad attitudini mentali, comportamenti, costumi; tali razze, sono di conseguenza disposte gerarchicamente su una scala di valori.

Razzismo di stato

Col nazifascismo il razzismo acquisisce un senso nuovo, diventa ideologia di stato, innerva tutti i campi del sapere, con il beneplacito dello Stato: medicina, genetica, biologia, antropologia, psichiatria, storia. I popoli sono classificati in termini di razza, ogni disciplina diventa funzionale ad affermare la superiorità della razza ariana. Anche in questo caso, per comprendere il fenomeno nella sua peculiarità, occorre in via preliminare individuare la funzione storica del nazifascismo. Inteso come sistema statale al soldo del capitale finanziario, esso ha il compito di “spezzare l’avanguardia proletaria” e “mantenere tutta la classe in uno stato di forzata frammentazione”. In questo quadro s’inseriscono sia l’antisemitismo utilizzato nella propaganda nazista sia, più in generale, l’ideologia razziale del Terzo Reich: la crisi sociale genera una generale intolleranza verso il capitale finanziario la quale viene incanalata dai nazisti in odio antiebreo. La borghesia tedesca utilizza il nazismo e, quindi, l’antisemitismo come mezzi per affermare un dominio sulle masse tedesche ai fini del conseguimento degli scopi imperialisti su scala europea. Da un lato si annientano tutti i punti d’appoggio del proletariato – organizzazioni sindacali, partiti ecc. dall’altro si sfrutta la debolezza rivoluzionaria del proletariato tedesco (e delle sue direzioni) per volgere le masse contro obiettivi che non intaccano realmente il potere del capitale finanziario. L’antisemitismo nazista si comprende solo in questo quadro. Per questo, ben poco valore scientifico hanno invece quelle ancora oggi molto diffuse ricostruzioni che vedono nell’antisemitismo nazista l’apogeo di un movimento secolare fatto di atti di intolleranza religiosa. E il caso, per citare solo uno dei tanti esempi, della ricostruzione di Michel Wieviorka che, nel suo celebre saggio sul razzismo, cerca le origini del razzismo di stato del nazismo nell’antisemitismo della Spagna della Reconquista, quando gli ebrei furono espulsi da quel paese. Paragonando la Spagna della fine del Quattrocento alla Germania del Novecento si rischia non solo di commettere una leggerezza dal punto di vista storiografico, ma anche di avallare l’idea che l’ebreo rappresenti effettivamente un gruppo umano distinto, un’etnia appunto. Astrarre dal contesto storico e tuffarsi in ricostruzioni completamente dimentiche della lezione marxiana e una tendenza molto diffusa anche in altre branche della storiografia contemporanea: si tende troppo spesso a pensare che le idee siano il motore della storia e così si abbocca alla favola delle “guerre umanitarie” o della “lotta al terrorismo”. Durante la guerra dei Balcani, i conflitti interni alla ex Jugoslavia venivano spiegati come epifenomeno di contrasti religiosi, mentre altri brillanti intellettuali andavano a cercare nell’attentato di Sarajevo del 1914 le “origini culturali” del conflitto in corso. Il razzismo del Nazismo è quindi allo stesso tempo un prodotto e un mezzo della strategia della borghesia tedesca e dei suoi appetiti imperialisti: il fascismo italiano rappresentando gli stessi interessi di classe arriva ad assumere, sebbene con un po’ di ritardo, i medesimi paradigmi ideologici. Nel 1938 il Giornale d’ltalia pubblica un articolo dal titolo “Il Fascismo e i problemi della razza”, più noto come “Manifesto della razza”, che costituisce il principale documento teorico del razzismo di Stato italiano e che fungerà da base teorica delle successive leggi razziali. Il testo si basa su una concezione della razza fondata su dati biologici e si difende a spada tratta l’“arianità” del popolo italiano. Se già precedentemente, per supportare ideologicamente la politica coloniale in Africa, si erano diffuse teorie razzizzanti, è solo nel 1938 che si arriva ad una più esplicita “ebreizzazione” del nemico con la conseguente intensificazione delle politiche antisemite: il ritardo si spiega ovviamente con le caratteristiche peculiari del contesto socio- economico italiano. Non a caso, a differenza dello Stato tedesco, il tentativo italiano di dar vita ad uno “Stato razziale” incontrerà notevoli resistenze non solo per l’evoluzione negativa della partecipazione italiana alla seconda guerra mondiale: la presenza di comunità ebree in Italia e il loro ruolo nell’economia ha avuto un’incidenza minore che in altri paesi europei.

Neorazzismo?

Non è possibile in questa sede analizzare le specificità delle forme, più o meno istituzionali, di razzismo nei vari ambienti sociali: come dimostra lo stesso caso del fascismo italiano, il contesto sociale e politico di una nazione, le caratteristiche peculiari del capitalismo nelle varie regioni si traducono in articolazioni necessariamente diverse del fenomeno. Stati Uniti e Giappone, due paesi mossi da una comune politica imperialista, conoscono tuttavia artico­lazioni diverse del fenomeno razzista, strettamente collegate alle necessita di giustificare un particolare tipo di oppressione coloniale o una certa strategia di sfruttamento del lavoro. Voglio invece soffermarmi su un dibattito che, in particolare negli anni Ottanta, ha animato non solo il mondo accademico ma anche quello politico: la questione del cosiddetto neo­razzismo o razzismo culturale. La questione e stata posta da alcuni autori esplicitamente anticomunisti come Pierre-Andre Taguieff che hanno tuttavia avuto il merito di gettare un po’ di sconquasso nelle ipocrisie di tanta parte della “sinistra di governo” e non solo. Proprio in questi giorni, nella pagina culturale (se così è lecito chiamarla…) di Liberazione è comparso un articolo di Anna Maria Rivera che elogia la pluralità culturale, il rispetto della differenza, il carattere comunque progressivo del multiculturalismo di marca anglosassone. È un atteggiamento che si pone in continuità con la retorica tipica degli ambienti della sinistra sociale, ben disposta a chiudere un occhio sulle responsabilità dei governi di centrosinistra nell’elaborazione di leggi – come la Turco- Napolitano in Italia – decisamente escludenti nei confronti degli immigrati e invece “intransigente” nei riconoscere i diritti di ogni cultura ad esprimere la propria “differenza”.

In Inghilterra e in Francia, alcuni studiosi agli inizi degli anni Ottanta cominciano a parlare di “nuovo razzismo”, cioè di un avvenuto passaggio – a loro avviso irreversibile – dall’inferiorità biologica alla differenza culturale (presentata quale elemento positivo da valorizzare) come criterio di legittimazione del razzismo.
Taguieff, nel suo celebre saggio La forza del pregiudizio, analizzando le armi ideologiche più in voga negli ambienti della nuova destra francese, riscontra una “novità dei modi di razzizzazione”: non si tratta più, nei nazional-razzismo del Fronte Nazionale, “di riattivare il razzismo coloniale, autoritario e paternalista, ma di integrare in un discorso populista le tematiche della difesa del diritto dei popoli all’identità”. In altre parole, si assiste a un’esplosione di riformulazioni del razzismo su basi non espressamente biologiche: cultura, lingua, religione, tradizioni diventano gli elementi discriminanti per individuare la diversità. Soprattutto, la retorica connessa a questo nuovo razzismo non è, apparentemente, quella dell’esclusione ma quella del “rispetto delle differenze”: ciò che si rigetta è la mescolanza, mentre la diversità è valorizzata. II razzismo assume un volto apparentemente bonario presentandosi come volontà di preservare le varie tradizioni e culture nel loro “diritto alla differenza”. II concetto di razza lascia il posto a quello di cultura, l’ineguaglianza viene celebrata come differenza: il “nuovo razzismo” si esplicita in politiche di esclusione e segregazione, di sviluppo separato, dietro il paravento dell’elogio delle identità culturali (comprese quelle degli esclusi).

La riflessione sul neorazzismo è anche al centro dell’opera di Etienne Balibar e Immanuel Wallerstein, Razza nazione e classe, una raccolta di saggi scritti nel corso degli anni Ottanta: gli autori accettano la tesi di fondo di Taguieff – pur sforzandosi di ripulirla dagli accenti eccessivamente polemici nei confronti del marxismo – e parlano dell’avvenuta cristallizzazione di un “razzismo senza razza”, che ha per tema dominante non l’eredita biologica ma l’irriducibilità e la positività delle differenze culturali.
Si tratta indubbiamente di letture unilaterali, che in primo luogo assolutizzano l’elemento linguistico: il razzismo si riduce quasi esclusivamente ad un pratica discorsiva, per cui l’utilizzo di un certo tipo di linguaggio diventa il discrimine essenziale. Ne deriva, in Taguieff, la grottesca equiparazione di “discorsi d’intenzione razzizzante e discorsi di antirazzismo militante” a causa dell’utilizzo dei medesimi giochi linguistici, della stessa celebrazione delle differenze culturali. L’errore anche in questo caso sta nel considerare la teoria – nel caso specifico, più in particolare, il linguaggio – come qualcosa che sussiste in sè, anziché come ideologia in senso propriamente marxiano: il linguaggio, le teorie sono piuttosto lo specchio delle condizioni socio-economiche e dei rapporti tra le classi.
La sicurezza di Taguieff e Balibar nell’affermare la tendenza inesorabile ad una nuova forma di razzismo differenzialista – che forse nasconde l’intento di celebrare la strategia francese di gestione dei fenomeni migratori in contrapposizione allo “stile” multiculturale britannico che tanto piace alla Rivera – è stata smentita dai fatti: l’imperialismo, con la recente esplosione di conflitti intercapitalistici su scala mondiale, ha dimostrato di poter ancora volgere ai suoi scopi le strategie classiche di razzizzazione.
L’arma ideologica della guerra al terrorismo si coniuga, infatti, con politiche di segregazione violenta ed espulsione delle minoranze musulmane, politiche che ben poco hanno a che fare con l’elogio della preservazione delle comunità tipico della retorica degli ambienti “culturali” della nuova destra. Anche la destra populista francese, che per un po’ ha civettato con il comunitarismo, oggi, nel nuovo clima internazionale, ritorna a far sfoggio degli elementi più classici del discorso razzista. Se ieri erano ebrei e neri gli avversari principali, oggi è il “musulmano” il nemico per eccellenza: si creano degli stereotipi che ricordano la teoria classica delle razze, sebbene il fattore che confusamente li definisce sia religioso “naturalizzato” e non quello prettamente biologico. L’atteggiamento nei confronti del musulmano non ha nulla a che vedere con la “valorizzazione” della cultura dello stesso: l’lslam è il male da debellare, la difesa degli interessi nazionali (talvolta anche contro quelli americani) si traduce nella volontà di annientare il diverso, non certo di valorizzarlo.
Al di là della concezione unilaterale che sta alla base delle teorie sul neorazzismo, è indubbio che esse hanno avuto il merito di smascherare il carattere illusorio di certe rivendicazioni delle direzioni dei movimenti antirazzisti di questi anni: spesso ci si è limitati a richiedere un “diritto di asilo” o “di cittadinanza” che non mette in discussione l’esclusione e lo sfruttamento selvaggio della forza-lavoro degli immigrati. In Italia, anche nelle città dove e maggiormente presente un’attività di sensibilizzazione sulle tematiche dell’immigrazione, perlopiù ci si limita a fornire un supporto legale o un sostegno caritatevole alle comunità di stranieri. La retorica del multiculturalismo, della convivenza e del sostegno reciproco tra italiani e immigrati talvolta non è altro che l’altra faccia della medaglia del rifiuto di inserire le rivendicazione relative ai diritti dei migranti in una più generale piattaforma anticapitalista. Lo stesso utilizzo del termine “migrante” è servito alle direzioni riformiste dei movimenti per relegare le rivendicazioni su un piano meramente simbolico e, appunto, culturale.
Al contrario, per pensare ad una possibile strategia antirazzista, occorre partire dal presupposto che il razzismo, nelle sue varianti “culturaliste” e “biologiche”, è parte organica del capitalismo, per questo la lotta contro il razzismo deve essere vista come una parte della lotta per il rovesciamento del sistema capitalistico: imprescindibile sarà quindi la connessione con le lotte della classe operaia. Le specifiche rivendicazione di chi subisce la discriminazione razziale deve diventare parte delle rivendicazioni del movimento operaio.

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G. L. Mosse, II razzismo in Europa, Roma-Bari, Laterza 1980.

K. Marx, F. Engels, L’ideologia tedesca, Roma, Editori Riuniti 1993, p. 36.

Si vedano, come esempio di tale deformazione teorica, i saggi contenuti in AaVv, II razzismo e le sue storie, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane 1992.

A. de Gobineau, Sull’ineguaglianqa delle razze, Milano, Longanesi 1965.

G. Le Bon, Lois psychologiques de l’évolution des peuples, Paris, Alcan 1894.

V. Lenin, L’imperialismo come fase suprema del capitalismo, in V.Lenin, Opere scelte, Edizioni Progress, Mosca 1976.

L. Trotsky, E ora? in L. Trotsky, Scritti 1929 1936, Milano, Mondatori 1970, p. 326.

M. Wieviorka, Il razzismo, Roma-Bari, Laterza 2000.

P. A. Taguieff, La forza del pregiudizio, Bologna, Il Mulino 1994.

M. Barker, The new racism, London, Junction Books 1981.

E. Balibar, I. Wallerstein, Razza nazione classe, Roma, Edizioni Associate 1996.

Per comunitarismo s’intende la tendenza a considerare i vari gruppi sociali e culturali come entità distinte, da preservare nella loro peculiarità. Per un certo periodo, almeno prima della recente fase di nuova esplosione dei conflitti imperialisti, la cosiddetta Nuova destra a fatto dell’elogio della comunità il proprio cavallo di battaglia: ne derivava la proposta politica di garantire la separazione (di fatto segregazione) dei vari gruppi “etnici”, presentata come mezzo per conservare le varie culture e religioni (cristiana, islamica ecc) di fronte ai pericoli di un livellamento di stampo americano. Anche per questo, la retorica comunitarista si e spesso connessa all’antiamericanismo tout-court, che tal­volta si ritrova anche in alcuni settori (minoritari) della cosiddetta sinistra anticapitalista.

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