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Brescia, quarant’anni dalla strage e ancora nessuna verità

Sono passati quarant’anni da quel 28 maggio 1974 quando una bomba esplode in piazza della Loggia a Brescia. Una bomba nascosta in un cestino dei rifiuti e fatta esplodere con un congegno elettronico a distanza, mentre era in corso una manifestazione contro il terrorismo neofascista indetta dai sindacati e dal Comitato Antifascista, per protestare contro episodi di violenza da parte di gruppi della destra eversiva. L’attentato provoca la morte di otto persone e il ferimento di oltre un centinaio. Un episodio che si colloca in quella che è stata definita “strategia della tensione”: la reazione di una parte degli apparati statali e del ceto politico di governo che insieme si mobilitano ricorrendo alla violenza indiscriminata per fronteggiare il pericolo comunista.

L’offensiva portata avanti da studenti e operai a partire dal 1969, sull’onda dei moti studenteschi americani dell’autunno del ’67 contro la guerra in Vietnam, fa tremare un sistema che si proclama democratico, ma che nel frattempo non esita a usare metodi che democratici non sono, per riportare l’ordine. Il 12 dicembre 1969 una bomba a Milano, in una banca, a Piazza Fontana, uccide sedici persone: questa data segna l’inizio della strategia della tensione, ovvero la degenerazione della democrazia italiana, già avviata nel 1964 con il “piano Solo” e durata per un quindicennio. L’Italia democratica e repubblicana nata dalla resistenza antifascista era, infatti, corsa ai ripari contro il pericolo rosso predisponendo un progetto che assicurava all’Arma dei Carabinieri (il cui Comandante Generale era allora Giovanni De Lorenzo) il controllo militare dello Stato mediante l’occupazione dei cosiddetti “centri nevralgici” e, soprattutto, mediante il prelevamento e allontanamento dei personaggi ritenuti politicamente “più pericolosi”(dirigenti di partiti di sinistra e sindacati) per i quali si era pensato a un soggiorno forzato nella sede del Centro Addestramento Guastatori di Poglina vicina a Capo Marrargiu, in Sardegna (base militare segreta). Un soggiorno che sarebbe durato sino alla cessazione dell’emergenza. Nel frattempo l’Arma avrebbe assunto il controllo delle istituzioni e dei servizi pubblici principali. Al piano Solo segue la strategia della tensione che unisce una parte consistente dei servizi segreti italiani, legati da una “doppia lealtà” all’Italia e alla Nato, settori importanti degli apparati statali e dei partiti di governo, gruppi dell’estremismo neofascista. Si tratta della risposta, violenta e coperta da segreti, dei tanti tutori, interni e internazionali, del vecchio assetto di potere politico-militare-poliziesco, ereditato dal regime fascista e dalla guerra, che si sentono minacciati dall’avanzata della sinistra parlamentare.

È in coincidenza, quindi, con i grandi sommovimenti sociali del ’68-’69 che il Partito della Tensione composto da servizi segreti italiani e internazionali, strutture armate occulte, destra estrema, lobby segrete, gruppi di dominio corrotti, centrali economiche preoccupate del cambiamento, scende sistematicamente in campo mettendo in atto una strategia che si concretizza in bombe gettate nel mucchio così da seminare il panico nel Paese e favorire una svolta autoritaria: piazza Fontana a Milano nel 1969, piazza della Loggia a Brescia nel 1974, treno Italicus nel 1974, stazione di Bologna nel 1980. Stragi su cui c’è una verità storica, ma non giudiziaria che è ancora ben lontana dall’essere scritta.
Riguardo alla strage di piazza della Loggia a Brescia si può parlare di due filoni di indagine. Il primo bresciano, si focalizza su un insieme non organizzato, formato da piccoli delinquenti comuni con simpatie di destra e da un gruppo di giovani neofascisti della Brescia bene (fra cui Andrea Arcai, figlio di un giudice, poi assolto). Si apre nel 1974 e si conclude tredici anni dopo con la sentenza del 25 settembre 1987 della Cassazione, che conferma in via definitiva l’assoluzione del gruppo. Il principale imputato, Ermanno Buzzi che già era stato condannato all’ergastolo per la strage con la sentenza di primo grado, viene strangolato nel carcere di Novara da due terroristi neri, Concutelli e Tuti, alla vigilia del processo di appello. Il secondo, proiettato sull’ambiente milanese e poi sui vertici di Ordine Nuovo del Triveneto, viene aperto in seguito ad alcune rivelazioni di collaboratori di giustizia provenienti dall’ambiente carcerario e si focalizza su gruppi della destra radicale milanese. Gli imputati, Fabrizio Zani, Marco Ballan, Giancarlo Rognoni, Bruno Luciano Benardelli e Marilisa Macchi, vengono definitivamente assolti dalla Corte di Cassazione il 13 novembre 1989. Nel 1993 la procura della Repubblica di Brescia apre una nuova inchiesta che vede iscritti nel registro degli indagati esponenti della destra eversiva, ma anche note personalità, come il generale dei carabinieri Francesco Delfino o l’ex parlamentare Pino Rauti. Dalle testimonianze di Carlo Digilio e Martino Siciliano sembra netto il coinvolgimento del gruppo ordinovista veneto.

E, sempre in seguito a queste ultime deposizioni, vengono coinvolti indirettamente (con l’accusa di favoreggiamento a favore di uno degli imputati, Delfo Zorzi), anche alcuni legali di spicco (compreso l’onorevole Gaetano Pecorella) che hanno sempre negato ogni addebito. Il 15 maggio 2008 sono stati rinviati a giudizio i sei imputati principali: Delfo Zorzi, Carlo Maria Maggi, Maurizio Tramonte, Pino Rauti, Francesco Delfino, Giovanni Maifredi. I primi tre erano all’epoca militanti di spicco di Ordine Nuovo, gruppo neofascista fondato nel 1956 da Pino Rauti e sciolto nel 1973 per disposizione del ministro dell’Interno Paolo Emilio Taviani con l’accusa di ricostituzione del Partito Fascista; Francesco Delfino era invece ex generale dei carabinieri, all’epoca responsabile, con il grado di capitano, del Nucleo investigativo dei Carabinieri di Brescia, mentre Giovanni Maifredi, ai tempi ricopriva il ruolo di collaboratore del ministro degli Interni Paolo Emilio Taviani. Il 16 novembre 2010 la Corte di Assise di Brescia assolve Carlo Maria Maggi, Francesco Delfino e Pino Rauti, dispone il non luogo a procedere per Maurizio Tramonte per intervenuta prescrizione in relazione al reato di calunnia e revocato la misura cautelare nei confronti dell’ex militante di Ordine Nuovo Delfo Zorzi attualmente imprenditore in Giappone. Due anni dopo la Corte di Assise d’Appello conferma l’assoluzione per tutti gli imputati condannando le parti civili al rimborso delle spese processuali. Il 21 febbraio 2014 la Corte di Cassazione annulla le assoluzioni di Maggi e Tramonte e conferma quelle di Zorzi e Delfino. Processo da rifare, dunque.
La strage di Brescia gode di un triste primato: nessun condannato. A distanza di tanti anni, tra depistaggi, cancellazioni di prove, fughe degli indagati, smarrimenti di prove, la giustizia non è ancora stata in grado di accertare alcuna responsabilità.

Il 28 maggio oggi, come quarant’anni fa, non deve essere una semplice giornata di commemorazione, ma di resistenza per ribadire ancora una volta che nessuna pacificazione è possibile. Per onorare la memoria di Giulietta Banzi Bazoli, Livia Bottardi Milani, Euplo Natali, Luigi Pinto, Bartolomeo Talenti, Alberto Trebeschi, Clementina Calzari Trebeschi, Vittorio Zambarda, scesi in piazza per dire no alla violenza fascista, continuiamo a lottare contro il fascismo di ieri e di oggi. Una lotta che non può prescindere dalla lotta di classe contro il capitalismo visto che solo opponendosi alle politiche dominanti che generano povertà, disoccupazione, precarietà è possibile contrastare il radicamento delle destre fasciste e nazionaliste.

Giovanna Scaramuzzo

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