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Dinamica e bilancio di una grande lotta

La conclusione negativa della lotta dei tranvieri genovesi non cancella minimamen te la straordinaria esperienza che questa vicenda ha racchiuso. Al contrario ripro -pone, contro ogni cultura “movimentista”, il ruolo cruciale della direzione dei movi menti.

AMT end

UNA GRANDE LOTTA DI MASSA

La lotta dei tranvieri genovesi è stata innanzitutto una grande lotta di massa. La memoria dei lavoratori che l’hanno vissuta è concorde: mai vi era stata una simile compattezza dei lavoratori dell’azienda. Neppure negli anni 70. La radicalità della lotta a oltranza ha unificato per cinque giorni quasi 3000 lavoratori, scavalcando le differenze di generazione, cultura, appartenenze sindacali. Quelle differenze che la routine quotidiana e la normale prassi sindacale concorrono ad approfondire e moltiplicare. …..

La radicalità della lotta non ha affatto “isolato” i lavoratori “dalla città” come vuole la vulgata. E’ vero l’opposto. Persino la stampa borghese è stata costretta a riconoscere che il senso comune di larga parte della città era favorevole agli scioperanti. Nonostante i pesanti disagi materiali e le campagne odiose di alcune associazioni di cosiddetti “consumatori”, il grosso dei lavoratori e della popolazione povera di Genova ha oscillato tra una benevola neutralità e un’aperta simpatia per la lotta. A differenza di tanti sciopericchi tradizionali, per lo più “incomprensibili” agli occhi di cittadini non sindacalizzati e politicizzati- e per questo spesso vissuti con fastidio o indifferenza- lo sciopero radicale dei tranvieri è apparso “uno sciopero serio”, con motivazioni chiare e condivisibili, mirato a vincere, non a partecipare. Da qui un sentimento diffuso in significativi settori popolari: “ Fanno bene”, “si fanno rispettare”, dovremmo farlo anche noi”. Un sentimento che incideva oltretutto sui rapporti di forza: quando mercoledì 20/11 la massa dei lavoratori ha invaso l’aula del consiglio comunale impedendo il varo della delibera sulla privatizzazione, il prefetto ha dovuto spiegare.. al sindaco Doria che non solo aveva difficoltà “tecniche” a caricare i lavoratori dentro il palazzo comunale, ma che “il clima in città oggi sconsiglia l’uso della polizia contro i lavoratori”. Più chiaro di così..

La radicalità della lotta ha inoltre esercitato un’attrazione in città presso i lavoratori di altre categorie, a partire dalle minicipalizzate. Più di un centinaio di lavoratori dell’azienda rifiuti ( AMIU) e dell’azienda di manutenzione delle strade (ASTER), anch’essi minacciati dalle privatizzazioni, sono subito accorsi a solidarizzare con i tranvieri quando hanno occupato Palazzo Tursi. I burocrati sindacali hanno dovuto sudare sette camicie nei giorni successivi per arginare i rischi di contagio nelle municipalizzate..Mentre l’annuncio di Letta sulla privatizzazione Fincantieri, gettava nuova benzina sul fuoco. Il rischio di una saldatura fra i tranvieri e altri settori operai, è divenuta non a caso, mercoledì e giovedì, la principale preoccupazione della stampa borghese cittadina.

LE PAURE DELLA BORGHESIA

A partire dal terzo giorno di sciopero la lotta dei tranvieri genovesi, sino ad allora “silenziata” , ha fatto il suo ingresso nello scenario mediatico nazionale. E’ un passaggio importante della vicenda.
In una logica di “mercato dell’informazione” ( perchè l’informazione è mercato come tutto il resto nella società borghese) decolla improvvisamente la concorrenza tra diversi canali televisivi e talk show nella rappresentazione della vicenda Genova come metafora della “disperazione sociale” e dei rischi di “rivolta”. Il che ha amplificato enormemente il fascio di luce sulla vicenda moltiplicando proprio quei rischi di emulazione che si volevano esorcizzare, a partire dal settore del trasporto locale: uno dei pochissimi settori che ha registrato un incremento complessivo delle ore di sciopero nel 2012/2013; un settore investito in ogni città da privatizzazioni e vertenze, e che proprio a Roma è oggi attraversato da processi di radicalizzazione strisciante di settori di massa ( Atac).
Il rischio contagio andava peraltro al di là del trasporto locale, nella stessa percezione della borghesia. “Rischio Genova” ( Corriere) “La rivolta di Genova”( Il Giornale) “La miccia di Genova” (Unità): così titolavano in prima pagina i giornali di giovedì 21/11 a caratteri cubitali. Non si riferivano ai soli ferrotranvieri.

Ma più si è elevato col passare dei giorni il livello dello scontro e delle sue potenzialità di richiamo, più è apparso drammaticamente evidente lo scarto tra la radicalità della lotta, e l’assenza di una direzione adeguata a quel livello di radicalità. Una contraddizione che le diverse burocrazie sindacali hanno usato per trovare la ( propria) via d’uscita dalla vicenda.

IL RUOLO DELLE BUROCRAZIE SINDACALI

L’AMT genovese vede una presenza largamente maggioritaria del sindacato autonomo legato alla FAISA/CISAL ( oltre 1000 iscritti) , con la CGIL in seconda posizione ( circa 500 iscritti). Gli altri sindacati sono irrilevanti. CISAL e CGIL avevano gestito insieme l’accordo bidone del 7 maggio 2013: quello che prevedeva il taglio di 1400 euro l’anno in busta paga più la rinuncia a 5 giorni di ferie in cambio della “promessa” difesa dell’azienda pubblica. Un accordo approvato dal 54% dei lavoratori: il che significa che una parte consistente della stessa base sindacale aveva votato contro l’accordo. Quando Doria ha stracciato l’accordo sottoscritto, umiliando le stesse burocrazie sindacali, la reazione radicale dei lavoratori ha messo gli apparati in grande difficoltà. Se avessero sconfessato la rivolta, ne avrebbero perso il controllo, compromettendo una credibilità già logorata. Hanno dunque preferito un’altra strada: far buon viso a cattivo gioco, assecondare inizialmente la dinamica della lotta, contenere il più possibile le sue spinte, per provare a recuperare il bandolo della matassa. Così è stato.

Le due enormi assemblee di venerdì 22/11 e sabato23/11 sono state entrambe la cartina di tornasole dell’evoluzione del movimento e della manovra degli apparati contro di esso. Con una dinamica molto diversa tra loro.

L’ASSEMBLEA DI VENERDI’22: L’EVOLUZIONE DEL SENTIMENTO DI MASSA

L’assemblea di venerdì 22/11 alla storica Chiamata del porto è stata l’assemblea della radicalità della lotta e della sua compattezza.
Compattezza non significa affatto omogeneità. Nella massa dei lavoratori si affacciava, com’è fisiologico, un’ampia eterogeneità di linguaggi e culture, spesso tra loro sovrapposte. Da un lato si manifestava una autorappresentazione di “categoria”, gelosa dei propri confini professionali, e segnata da una diffidenza molto marcata verso la dimensione stessa della “politica”: lo striscione messo in bella mostra in sala dal sindacato autonomo “ Né rossi, né neri, solo tranvieri” rifletteva e coltivava questo lato della psicologia di massa.
Ma nella stessa assemblea si affacciavano, contradditoriamente, ben altri riferimenti e sentimenti. “Oggi non è il 23 Novembre, ma il 3o Giugno 60. La storia ricomincia da Genova” esclamava un operaio nel suo intervento tra applausi scroscianti. “Questo non è uno sciopero, ma una rivoluzione” gridava un altro operaio che sedeva alla presidenza, anch’egli applaudito. Gli attestati di solidarietà che provenivano da fuori Genova erano salutati con entusiasmo, non con diffidenza o distacco: “La scintilla dell’Italia siamo noi” diventava non a caso proprio venerdì uno slogan di massa dell’assemblea. La stessa accoglienza calorosa riservata al nostro intervento di partito rivelava che la crosta del rifiuto dei “politici” non era affatto impermeabile. In realtà la sensazione emergente e diffusa nell’assemblea di venerdì era quella di essere entrati in una dimensione ben più grande di una vicenda di categoria. Ciò che isolava le pulsioni più arretrate e “corporative” e segnava una maturazione della coscienza di classe.

Per questa stessa ragione le burocrazie sindacali azionavano la prima frenata . I loro interventi conclusivi in assemblea erano indicativi. Il massimo esponente della CGIL, dopo aver lodato la lotta, affermava che “ora si tratta di trovare subito uno sbocco” ( “ringrazio il compagno Ferrando, ma non si pone la necessità di casse di resistenza”). Il capo della CISAL dichiarava:” Non dobbiamo cambiare il mondo ma un azienda”, “ I politici portino pure la propria solidarietà ma non ingeriscano”, “la lotta è dei tranvieri, non di tutto il mondo del lavoro”. Era il tentativo di far leva sul lato arretrato della coscienza per bloccare il suo sviluppo politico.
La frenata aveva anche un risvolto di piazza. Il corteo del pomeriggio voleva marciare sulla prefettura, dove era annunciato un incontro sindacale con le controparti. I dirigenti sindacali non gradivano, perchè non volevano intralci: “ Alla prefettura andiamo noi, è inutile che voi restiate per strada, vi informeremo sull’esito”. Il tentativo di smobilitazione non ebbe alcun esito. I lavoratori non volevano lasciare la strada, perchè volevano continuare a sentirsi diretti protagonisti della propria lotta, perchè diffidavano dei dirigenti sindacali, e perchè anche la strada aveva consolidato ai loro occhi una unità di lotta che non volevano disperdere. Dunque il corteo dei lavoratori ha “accompagnato” i burocrati alla prefettura, contro la loro volontà. Ma cresceva tra gli operai il disorientamento e la confusione sulle prospettive. Mentre si affacciavano le prime tensioni tra i lavoratori.

UN ACCORDO NEGATIVO CONTRO LAVORATORI E SERVIZIO.
L’ASSENZA DI UNA PROPOSTA ALTERNATIVA DI DIREZIONE DELLA LOTTA

Nella notte di venerdì , sindacati, Comune, Regione siglano l’accordo.

L’accordo è negativo. Certo non prevede decurtazioni salariali come l’accordo di maggio, perchè nei nuovi rapporti di forza Doria non avrebbe potuto permetterselo, e soprattutto gli apparati non avrebbero potuto gestirlo. Ma l’accordo scarica il risanamento aziendale sul taglio delle linee collinari, con un colpo annunciato sia agli organici sia al servizio ( a proposito di “interessi dell’utenza”): con lo scopo di rendere l’azienda più appetibile in prospettiva per futuri compratori o gestori. Il bando di gara regionale per il 2015 va esattamente in questa direzione. Altro che ritiro della privatizzazione.
Ma al di là dell’aspetto sindacale, l’accordo ha soprattutto una finalità politica: spezzare la dinamica di una lotta sfuggita di mano, bloccare sul nascere una sua trascrescenza locale e nazionale, ripristinare la “normalità”.

Il problema era far passare l’accordo nell’assemblea dei lavoratori di sabato 23/11. Non era facile. Le burocrazie hanno dovuto investire nell’impresa tutto il proprio mestiere, acquisito in tanti anni di esperienza.

Tre gli argomenti spesi per la chiusura della lotta. Il primo era la valorizzazione di merito dell’accordo:” Abbiamo ottenuto tutto, cos’altro volevamo ottenere?”. Il secondo era più consistente e insidioso:” Non abbiamo alternativa. Non possiamo continuare così. Se diciamo no la città si rivolterà contro di noi. E poi, quale sarebbe la prospettiva?”. Il terzo è il più ipocrita: “ Siamo rimasti soli. Gli altri lavoratori non ci hanno seguito. Potevano, ma non l’hanno fatto. Solo noi ci siamo spesi, noi tranvieri, adesso dobbiamo chiudere.” I burocrati puntavano a piegare la fiducia della massa nella propria forza, a utilizzare diffidenze corporative verso altre categorie, a far leva su quell’ombra lunga della rassegnazione e delle sconfitta che una grande lotta cercava di scrollarsi di dosso.

Il punto di forza degli apparati non è stato il merito dell’accordo, che ha abbindolato ben pochi, ma l’apparente assenza di una prospettiva alternativa. Tanti lavoratori non volevano cedere. Tanti interventi in assemblea avevano demolito, se ve ne era bisogno, i contenuti dell’accordo. Ma la domanda restava: se si respinge l’accordo, cosa si fa? Un interrogativo senza risposta alimentava confusione e paura. E diventava il corpo contundente della burocrazia per piegare la lotta.

UN ALTRA POSSIBILE DIREZIONE DI MARCIA

Sarebbe stato necessario dare risposta a quell’interrogativo, contrapponendo alla burocrazia una proposta alternativa in assemblea che rovesciasse uno per uno gli argomenti, e indicasse un’altra strada possibile: non l’arretramento della lotta ma un salto in avanti delle sue forme di organizzazione, di democrazia operaia, di relazione di classe con gli altri lavoratori.

La prima questione era la formazione della cassa di resistenza.
Una lotta prolungata ha bisogno di coprirsi le spalle economicamente. Soprattutto se alla perdita del salario si aggiungono le multe della prefettura. Da tutta Italia erano giunte disponibilità generose a contribuire finanziariamente alla lotta da parte di tanti lavoratori, non solo peraltro del trasporto locale. Gli stessi burocrati venerdì in assemblea, nel mentre negavano la necessità di una cassa di resistenza, annunciavano che avevano dovuto aprire un conto corrente pubblico per incanalare offerte d’aiuto che si andavano moltiplicando. Occorreva incoraggiare e dare una forma organizzata a questa spinta. L’assemblea poteva proporre pubblicamente una cassa di resistenza nazionale, a sostegno della lotta e della sua generalizzazione. La risonanza dell’iniziativa sarebbe stata enorme, ed anche i suoi riflessi economici. Peraltro le casse di resistenza esistono in altri paesi a copertura di possibili lotte prolungate. Quale migliore occasione della lotta a oltranza dei tramvieri di Genova per popolarizzare e concretizzare questa necessità? Ma nessun soggetto sindacale, per quanto critico, ha avanzato la proposta in assemblea. Né la pone sul piano nazionale.

La seconda questione riguarda il rapporto con altri lavoratori.
Nulla era più falso del cosiddetto “isolamento” dei tramvieri di Genova. Da due giorni proprio la lotta a oltranza di Genova iniziava ad esercitare un attrazione sui lavoratori del trasporto locale in diverse città. Un gruppo di autoferrotranvieri romani, venuti a Genova a proprie spese, informava dello stato di agitazione della categoria nella propria città, chiedendo all’assemblea genovese di continuare la lotta, facendo da traino. Le stesse direzioni sindacali nazionali- del tutto assenti nelle giornate di Genova- fiutavano l’aria e in fretta e furia proclamavano uno sciopero della categoria di..4 ore..per il 5 Dicembre, per cercare di disinnescare possibili trascinamenti della lotta genovese, e dirottare le spinte su un binario inoffensivo. Anche a Genova l’attrazione della lotta cresceva. Una lavoratrice dell’APT provinciale interveniva in assemblea per dire ai tranvieri:” Grazie a voi per la prima volta dopo anni abbiamo fatto un assemblea nella nostra azienda per organizzare lo sciopero. Non mollateci proprio ora”. Era l’esatto capovolgimento dell’argomento dei burocrati. La verità è che il solo prolungamento della lotta a lunedì avrebbe potuto richiamare un salto di propagazione della sua dinamica, a tutto vantaggio degli stessi tranvieri di Genova. Per questo era necessario proporre che l’assemblea dei tranvieri rivolgesse un pubblico appello alla lotta generale, a partire dagli autoferrotranvieri. E che a Genova stessa si organizzasse un intervento diretto dei lavoratori scioperanti AMT presso le rimesse di AMIU, APT, ASTER, per incoraggiare l’estensione della lotta contro le privatizzazioni a difesa del lavoro.
Una simile scelta, sotto i riflettori nazionali, avrebbe rappresentato un fattore di richiamo formidabile ( e perciò stesso oltretutto.. di massima pressione sulle controparti locali).

La terza questione riguardava l’organizzazione democratica della lotta. Alla AMT non c’è neppure la RSU. Il sindacato autonomo si è sempre opposto alla sua costituzione, e la CGIL si è adattata. In AMT le burocrazie fanno da sempre il bello e cattivo tempo senza neppure una parvenza formale di rappresentanza democratica per quanto distorta dei lavoratori. La stessa trattativa nei giorni della lotta è stata gestita dalle burocrazie nel modo più truffaldino. Mirabile il passaggio di venerdì notte. Siccome gli apparati temevano l’impatto dell’accordo sull’assemblea del giorno dopo, hanno deciso di associare all’incontro decisivo in prefettura un lavoratore aggiuntivo per ogni sigla sindacale. Naturalmente i fiduciari eletti dai burocrati (e non dall’assemblea), sono stati i primi a lodare l’accordo in assemblea quali presunti “garanti” della base. In realtà erano solo i garanti dei loro capi contro i lavoratori.
A questa gestione della lotta poteva essere contrapposta dall’inizio una soluzione alternativa: la elezione diretta da parte dell’assemblea di una rappresentanza democratica dei lavoratori che partecipasse pienamente al negoziato con la controparte. Dopo il tradimento conclamato dei burocrati, questa proposta poteva prendere la forma di un vero comitato di sciopero eletto dall’assemblea quale direzione alternativa della lotta e della sua continuità. Un comitato di sciopero è uno strumento che appartiene alla storia migliore del movimento operaio. Ma nessuno ha avanzato questa proposta.

L’ASSENZA DI UNA PROPOSTA ALTERNATIVA SPIANA LA STRADA AI BUROCRATI

In compenso, piccoli sindacati “critici” hanno svolto in assemblea un ruolo negativo e subalterno. Che ha facilitato le burocrazie.

Il sindacato Orsa appena costituito in azienda è intervenuto per dire che l’accordo doveva essere emendato su un punto particolare, quello del subappalto: ma si poteva risolvere il problema allargando il successivo incontro con la controparte anche.. all’Orsa.
I sindacati di base, molto deboli in azienda, sono intervenuti per proporre il rinvio del voto sull’accordo a Gennaio. Nel frattempo si sarebbe dovuti arretrare sul terreno della “lotta articolata”. I loro dirigenti provinciali confidavano riservatamente che “ La lotta a oltranza è stata una follia sin dall’inizio, sono possibili solo lotte articolate”. (Di cui nessuno si sarebbe accorto).
La verità è che i soggetti critici si sono essenzialmente preoccupati del proprio ruolo e di qualche tessera in più, più che della prospettiva di lotta del movimento reale e della sua vittoria.

Il risultato d’insieme è stato uno solo. Un accordo respinto dalla coscienza dei più è “passato” per l’ assenza di una chiara alternativa di prospettiva e di azione. Un largo settore di giovani contrario a un accordo che umiliava 5 giorni di lotta, si è contrapposto spontaneamente ai burocrati, ma non ha trovato un polo di riferimento in assemblea che potesse conquistare l’egemonia. Una (risicata) maggioranza reale, disorientata e delusa, dava un “sì” sfiduciato, vivendolo come una sconfitta. I burocrati completavano l’opera mettendo al sicuro il ( proprio) risultato col rifiuto di formalizzare e conteggiare il voto. La rissa tra lavoratori è stato l’epilogo amaro di una vicenda che aveva visto proprio nell’unità operaia la sua espressione migliore.

Le burocrazie nazionali esprimono soddisfazione. Bonanni ha dichiarato che “l’accordo di Genova è un esempio da generalizzare a tutto il trasporto locale”. Comprensibile. Susanna Camusso ha sentito l’esigenza di cantare vittoria: “ La positiva conclusione della vicenda di Genova dovrebbe spiegare a tutta la politica il ruolo prezioso e insostituibile del sindacato”. Ha ragione. La politica borghese deve ringraziare il ruolo della burocrazia CGIL, e non solo.

LE LEZIONI DI UN BILANCIO POLITICO A SINISTRA
LA SCELTA DEL PARTITO COMUNISTA DEI LAVORATORI

La sinistra politica nelle sue diverse espressioni è stata assente dalla lotta di Genova.

SEL si è trovata col suo sindaco Doria e i propri assessori dall’altra parte della barricata, finendo col denunciare la lotta radicale di massa come “squadrismo”. E il governatore Vendola tanto più oggi ha davvero altro a cui pensare…

Rifondazione risulta non pervenuta, impegnata in un congresso crepuscolare che deve decidere della sorte della segreteria dell’ex ministro Ferrero. Nel frattempo continua a far parte della maggioranza regionale con PD e UDC, votando tagli a sanità e servizi. Al fianco di quel Burlando che nel 97 da ministro dei trasporti, col voto del PRC, varò un record di privatizzazioni, con ricadute pesanti proprio su Genova.

Infine quei settori della sinistra antagonista che il 19 ottobre a Roma salutavano come “sollevazione” una manifestazione sulla casa, non si sono occupati della sollevazione reale dei tranvieri di Genova e delle sue reali potenzialità di contagio. Nulla poteva essere loro culturalmente più estraneo.

Il PCL ci ha messo invece la faccia.
Non avevamo una presenza diretta tra i lavoratori del trasporto urbano genovese, a differenza che a Roma, a Firenze e in altre città, e quindi non potevamo incidere sulla dinamica interna del confronto tra lavoratori nei giorni cruciali delle decisioni.
Ma siamo stati l’unico partito che è stato presente sin dall’inizio in tutti i passaggi della lotta, con i propri militanti e i propri volantini. L’unico partito presente nella lotta di Genova con la propria rappresentanza nazionale. L’unico che ha potuto intervenire nella grande assemblea pubblica della chiamata del porto. L’unico che lavora a valorizzare in tutta Italia questa esperienza di lotta radicale.
Se abbiamo investito in questa lotta tanta attenzione e presenza, a differenza di altri, non è affatto casuale. Né è solo per il legame che ci unisce agli interessi immediati della classe operaia. E’ perchè a differenza di altri ci battiamo realmente per una ribellione di massa, nella prospettiva rivoluzionaria di governo dei lavoratori: nel mondo reale della lotta di classe , fuori da ogni logica di piccolo cabotaggio.

L’esperienza di Genova insegna quanto sia essenziale la costruzione di una direzione alternativa del movimento operaio.

Solo una dinamica di lotta di massa radicale può seriamente preoccupare la borghesia. Ma solo una direzione alternativa della lotta può evitare che la mobilitazione più radicale e generosa venga dispersa e sconfitta dalle burocrazie: e non c’è costruzione di una direzione alternativa di lotta fuori da un progetto complessivo anticapitalista che raccolga e organizzi attorno a sé la migliore avanguardia della classe operaia e dei movimenti, e riconduca ogni lotta a una prospettiva di rivoluzione.

Le ragioni del Partito Comunista dei Lavoratori e del suo sviluppo sono state riproposte dalla vicenda di Genova in tutta la loro straordinaria attualità.

Marco ferrando

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