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CAPITALISMO È BARBARIE!

I CRIMINI DEL CAPITALE IN BANGLADESH E LA RISPOSTA DEI LAVORATORI 
Secondo le notizie diffuse ultimamente, pare che la stima delle vittime del crollo di una fabbrica tessile avvenuto il 24 aprile scorso a Dacca, capitale del Bangladesh, si aggiri sulle 1200 persone. 
Probabilmente è “l’incidente sul lavoro” più grave che la storia ricordi, una vera e propria ecatombe di operaie e operai che mette in luce la barbarie di questo sistema in putrefazione. 
Una barbarie che la borghesia e il suo stato cercano di mascherare con la loro tipica ipocrisia e con il gioco dello scarica barile: si è cercato di imputare tutte le colpe all’esecutore materiale del crimine, il proprietario dell’azienda (non certo indenne da responsabilità) che a sua volta provava a scaricarle sul proprietario dello stabile. Per la mentalità borghese ogni uomo è responsabile nell’ambito del proprio lavoro, dei compiti che gli vengono assegnati; quello che sta fuori da questo recinto non interessa. 
Così un imprenditore che appalta un lavoro non ha la minima responsabilità su come questo viene svolto, anche se poi con questo lavoro si arricchisce: ognuno pensi per sé! e poi si sa: ”Pecunia non olet”. 
Men che meno si prova a indagare se ci siano colpe sistemiche, perché per la borghesia il sistema capitalista è la forma naturale di organizzazione sociale dell’essere umano, non ha senso quindi chiedersi se ci sia qualcosa che non va in esso. In questo modo tutto ricade sulla responsabilità delle singole persone e non si viene mai a capo del problema, così come ad esempio, in campo storico, si studia la storia del nazismo indagando sulla psiche deviata di Hitler e non sulle “spintarelle” che ricevette dai vari industriali tedeschi. 
Questa volta però il tentativo appare più goffo perché, invece che risalire la catena di comando fino al suo apice, ci si sofferma su l’ultimo anello della catena, un po’ come se al tribunale di Norimberga ci fossero finiti solo i kapò dei campi di sterminio. Seguendo il vecchio ragionamento degli storici borghesi, si cercherebbero i mandanti. È vero che per i giuristi del sistema non sarebbe facile trovarli perché questi hanno creato un sistema di appalti e subappalti pensato apposta per sfuggire a ogni responsabilità ma, per chi sa togliersi dagli occhi il salame avariato del diritto borghese, l’indagine sarà facile: basta controllare le etichette sui capi prodotti dalle vittime: sopra di esse si potranno vedere le firme delle grandi multinazionali della moda, come Zara, Carrefour o l’italiana Benetton; le stesse che ora, davanti alla mostruosità del loro crimine e alla risposta degli operai, si apprestano a mascherarsi da “capitalisti dal volto umano”, mostrando quelle buone intenzioni di cui sono lastricate le vie per l’inferno e firmando accordi bidone con le burocrazie sindacali, complici anche esse della situazione. 
Pare che questo squallido genere teatrale non vada più di moda tra i lavoratori del Bangladesh: è stato infatti davvero difficile nascondere le colpe sistemiche, di classe, dell’accaduto, e anche il ruolo di classe che gioca lo stato come garante dei profitti padronali. Dalle indagini si è saputo che il giorno precedente la tragedia gli operai avevano avvisato l’azienda di una vistosa crepa che si era creata nell’edificio che fu anche evacuato e che il proprietario, col timore di perdere clienti, aveva costretto gli operai a presentarsi al lavoro il giorno successivo sotto la minaccia di perdere un mese di stipendio; ma si è anche scoperto come l’edificio fosse a rischio crollo fin dalla sua costruzione.
Il proprietario dello stabile, un uomo legato al partito al potere, ottenne l’autorizzazione a costruire l’edificio sopra un palude, non dalle autorità competenti ma dal sindaco in persona, per di più nella fasulla autorizzazione il Rana Plaza doveva essere di cinque piani mentre al momento del crollo i piani erano sette e un altro era in costruzione. Il primo ministro e altri membri del governo hanno cercato di rifugiarsi dietro tristi frasi come “gli incidenti capitano”, ma anche le loro colpe si intuiscono facilmente. 
Non è un infatti un caso se l’industria tessile del paese ha vissuto negli ultimi anni un vero e proprio boom grazie all’arrivo di commesse da parte delle multinazionali straniere. 
Nel 2011 i ricavi della Benetton erano fermi, come dieci anni prima, a due miliardi di euro. Nel 2012 ,commentando i deludenti risultati, l’azienda ha annunciato che avrebbe “agito con determinazione per raggiungere la massima efficienza nei processi di produzione e di approvvigionamento”. 
Il Bangladesh era il paese ideale per questa strategia. Il governo del Bangladesh applica leggi antisciopero (le istituzioni possono dichiarare illegale uno sciopero a loro discrezione) che fino ad ora hanno fatto sì che i salari del paese siano probabilmente i più bassi del mondo (un quarto di quelli cinesi). 
Le condizioni di lavoro sono al limite della sopportazione umana: secondo uno studio il 40% degli operai del settore ha subito violenze fisiche nel luogo di lavoro; gli abusi sessuali sono comuni così come le punizioni fisiche per il mancato raggiungimento degli obbiettivi produttivi. Molto diffuso è il lavoro minorile che viene pagato ancora meno di quello degli adulti. Più della metà delle operaie intervistate non ha goduto del diritto di congedo per maternità, la maggior parte ha lavorato fino all’ultima settimana di gravidanza e poi è stata licenziata. Per quanto riguarda la sicurezza il governo si è dotato di 18 ispettori che dovrebbero riuscire a controllare 100.000 aziende solo nella capitale, in compenso è stato creato un corpo speciale di polizia col compito di spiare i lavoratori per evitare la loro organizzazione indipendente. Ora che anche l’opinione pubblica occidentale è venuta a conoscenza della situazione, molte aziende hanno paura che i propri clienti sentano “l’odore di morte” uscire dai propri guardaroba e siano meno portati al consumo, così alcune di queste cercano di dare una ripulita alla loro immagine. Come? Semplice: dichiarando di bloccare la produzione in Bangladesh, come ha fatto la Disney. Questo farà forse sentire più tranquillo qualche consumatore occidentale, ma non aiuterà di certo a migliorare le condizioni di vita del proletariato del paese asiatico. Siamo sicuri poi che questi signori non andranno di certo in giro per il mondo a cercare qualche paradiso per operai dove investire i loro soldi e che si accontenteranno di trovare un paradiso per i loro capitali, un luogo dove questi possano riprodursi in tranquillità creando un adeguato profitto, dove lo sfruttamento possa continuare senza il fastidio di occhi indiscreti, magari in Birmania o in Vietnam o magari (più difficile ormai) dove lo sfruttamento sia più nascosto, garantito non da bassi salari ma da alta produttività del lavoro grazie alla tecnologia ma assicurando ugualmente che una parte cospicua del prodotto del lavoro dei proletari finisca nelle mani di chi a questo lavoro non ha partecipato, ovvero ai capitalisti. È questo il male profondo di una società in bancarotta; non tanto la malvagità di qualcuno, che esiste ma che è l’effetto e non la causa del problema, che va invece ricercata in un sistema in cui tutto si muove non per soddisfare i bisogni umani ma per garantire la riproduzione del capitale monetario in mano ad una minoranza di parassiti: questa riproduzione può avvenire solo tramite l’utilizzo (sfruttamento) della merce forza lavoro che, seguendo le leggi che valgono per ogni altra merce sul mercato, tende ad abbassare sempre più il proprio valore sotto la spinta della competizione. 
Fortunatamente questo sistema crea anche le forze che possono distruggerlo: quegli uomini e quelle donne che non posseggono niente se non quella merce forza lavoro indispensabile alla riproduzione del capitale, quegli uomini e donne che lo stesso capitale concentra ed unisce rendendoli una classe, l’unica classe genuinamente rivoluzionaria, il proletariato. Questo processo ce lo sta mostrando proprio il Bangladesh in questi giorni. Da anni i pennivendoli della borghesia continuano a blaterare sulla presunta scomparsa della classe operaia, altri, più realisticamente, ci spiegano che molte produzioni si sono spostate in paesi dove i lavoratori accettano condizioni peggiori (come se ci fossero popoli geneticamente portati al servilism) e che di conseguenza, anche i lavoratori italiani si devono adeguare accettando gli inevitabili sacrifici. 
Ora proprio la giovane, povera e ricattabile classe operaia del paese asiatico ci rinfresca le idee su quale sia il modo per lottare contro il nemico di classe: smentire i pennivendoli, dimostrare come lo sviluppo della forza e della coscienza della classe non sia un percorso lineare e come settori inizialmente arretrati del proletariato mondiale possano compiere in poco tempo grandi balzi in avanti. 
Già nel 2009 vi era stata una grande rivolta operaia per ottenere un aumento dei salari, dopo 4 anni la tragedia del Rana Plaza ha riacceso la voglia di riscatto degli sfruttati. Il giorno dopo il crollo la città era bloccata da un enorme sciopero auto-organizzato dai lavoratori: questa reazione, da sola, ha spinto le burocrazie sindacali a indire uno sciopero, svoltosi domenica 28 aprile ( in Bangladesh è ugualmente un giorno di lavoro). Già venerdì 26 aprile una grande manifestazione ha attraversato la capitale, trasformandosi in un enorme picchetto di massa che ha bloccato le strade e ha obbligato alla chiusura forzata delle fabbriche che provavano a continuare la produzione; in seguito i manifestanti si sono scontrati con la polizia che voleva impedire l’azione operaia. Il giorno seguente stato e padroni capiscono che è meglio non sfidare la rabbia operaia, così gli imprenditori decretano la chiusura delle aziende per sabato e domenica e il governo fa arrestare il proprietario del Rana Plaza e tre impresari che producevano al suo interno. Il primo e il due maggio sono state altre giornate di mobilizzazione, con manifestazioni che esigevano il giudizio e castigo dei responsabili, l’indennizzo delle vittime e migliori condizioni di lavoro. Il governo pare sia ora impegnato nel difficile tentativo di fare concessioni senza mettere a rischio i profitti padronali: ha annunciato la formazione di una commissione formata da rappresentanti degli imprenditori, della burocrazia sindacale e del governo, con l’intento di accordarsi entro tre mesi per un aumento del salario minimo. Sembra anche però che i lavoratori abbiano imparato a non farsi prendere più in giro dalle promesse del governo e dei burocrati visto che, secondo le ultime notizie di cui siamo in possesso risalenti al 23 di maggio, gli scioperi e le manifestazioni continuano, gravi scontri si sono registrati nei sobborghi della capitale tra polizia e gli operai, che ora richiedono un aumento del salario da 38 dollari a 102. 
Intanto la lotta ottiene i primi risultati: il governo è stato costretto a dichiarare che da ora per gli operai del tessile vi sarà la possibilità di formare sindacati indipendenti senza dover chiedere precedentemente il permesso al padrone della fabbrica. Non solo il Bangladesh: negli ultimi anni gli sfruttati di paesi un tempo considerati sottosviluppati come Cina e India, a cui non veniva riposta fiducia dalle sinistre occidentali e che al contrario alimentavano il sogno della borghesia di fuggire dalla crisi trovando altre milioni di braccia da sfruttare, hanno smentito il pessimismo dei primi e deluso le speranze dei secondi, dimostrando come gli inguaribili pessimisti manchino di quella che per Lenin era una delle prime virtù dei rivoluzionari: la pazienza. Lo sviluppo dell’industria capitalistica in zone del mondo precedentemente riservate allo sfruttamento delle materie prime e prevalentemente contadine accresce, oltre che l’esplosività della crisi stessa del capitalismo, la forza potenziale del proletariato mondiale. 
La crisi del capitale e i metodi che esso usa per superarla creano i mezzi per il suo superamento, non solo della crisi ma del capitalismo stesso. 
Questa forza ha però bisogno di unirsi e organizzarsi a livello mondiale per riuscire a non disperdersi, di una direzione politica per non percorrere strade senza sbocco. 
La creazione di una organizzazione internazionale dei lavoratori rivoluzionari, che indichi ai dannati della terra l’unica via per superare la barbarie del capitalismo, la via della rivoluzione sociale e della dittatura del proletariato, è sempre più attuale e urgente

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