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UNA LOTTA ESEMPLARE: IL CASO JABIL

E.M.- A Cassina de Pecchi (Mi), le telecomunicazioni hanno sempre rappresentato il perno dell’economia locale, e lo stabilimento Nokia-Siemens da sempre era il fiore all’occhiello del settore. Almeno fino al 2007, quando il gruppo è passato a un’altra multinazionale la Jabil, con l’impegno da parte di Nokia a garantire 3 anni di commesse (scadute l’anno scorso e non rinnovate).
La Jabil ha sempre puntato sulla maxi-commessa Nokia, lasciando poco spazio ad altri committenti. Nel 2010 ha così deciso di cedere tutto a un fondo statunitense sotto cui si sono accumulati 70 milioni di debiti, tanto che gli operai chiesero l’amministrazione controllata.
 Inseguito la Jabil ritornò improvvisamente sulla scena e riacquistò la fabbrica, impegnandosi in un piano di rilancio. Il piano non si è mai visto, il rilancio neppure.
Il settembre scorso la Jabil ha dichiarato di voler chiudere e ha fatto partire le procedure per 320 licenziamenti. È lecito sospettare che se lo stabilimento dovesse chiudere il terreno dove sorge l’azienda ( 160 mila metri quadrati) possa cambiare destinazione d’uso (da industriale a commerciale/abitativa). Ma i piani padronali sono saltati il 12 dicembre, quando l’azienda ha serrato le entrate e i 320 lavoratori hanno occupato la fabbrica.
Un presidio esterno era stato messo in piedi già da luglio, quando si è cominciato a intuire che l’impresa aveva intenzione di smobilitare, ma tre settimane fa la situazione è precipitata e le tute blu hanno deciso di riappropriarsi delle linee ed impedire lo smontaggio dei macchinari. Non solo, seppur per poche ore al giorno, sono riusciti a far ripartire la produzione.
 La vicenda della Jabil ricorda tante altre situazioni presenti nel nostro paese: padroni che, anche se in possesso di stabilimenti non decotti ma capaci ancora di servire diversi committenti, scelgono però di chiudere la fabbrica perché per loro è più conveniente vendere il terreno. Ciò dimostra che a volte il profitto coincide con la produzione (in ogni caso sempre illogica e basata sullo sfruttamento degli operai) altre volte (sempre più spesso nei periodi di crisi) no. Al contrario il profitto tende a coincidere proprio con la dismissione industriale.

La sinistra riformista ci vuole spiegare che si tratta della differenza tra borghesia buona (quella che produce) e quella cattiva (quella che specula), ma non coglie il succo della questione. È il capitalismo stesso che ad un certo punto entra in crisi perché si scontra con le sue stesse contraddizioni. Gli industriali che per competere sul mercato aumentano lo sfruttamento dei lavoratori, si trovano (proprio perché hanno impoverito il proletariato) a non avere più compratori per le loro merci: si accentra così la produzione, diminuiscono i margini di profitto e ad un certo punto diventa più conveniente buttarsi sulla speculazione.

Ma la lotta dei lavoratori Jabil dimostra che gli operai possono superare la crisi perché possono liberarsi dei padroni e lavorare senza questa figure inutili. È chiaro che una singola fabbrica “liberata”da sola non può fare molto, non possono esistere “isole felici” nel sistema capitalista, ma questo sta a significare che l’esempio della Jabil dev’essere generalizzato. Occupare e autogestire tutte le aziende che chiudono o licenziano! Lottare per la loro nazionalizzazione senza indennizzo e sotto controllo operaio! Chi volesse sostenere la lotta operaia Jabil può farlo con un contributo sul c.c. Iban:it28s0312732860000000000331 casuale: presidio jabil

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