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Ma il PCI era comunista?

La domanda non è provocatoria, è seria.
Come sia finito, il PCI, è noto, liquidato da parte del suo stesso gruppo dirigente…
La domanda da porsi è, allora: da quando e da quanto, quel gruppo dirigente, non era più comunista?
Non voglio andare per le lunghe. A costo di essere schematico e approssimativo: il PCI non era più comunista (almeno) dalla metà degli anni trenta, da quando il suo gruppo dirigente aveva fatto proprio lo stalinismo.
Si potrebbe mettere in questione l’assunto, qui implicito, che lo stalinismo non fosse più comunismo.
Chiarisco meglio la faccenda. Parlando in generale sotto un profilo storico astratto si può accettare come comunista chiunque si definisca tale.
Con questo criterio da storico-storico, anche Occhetto era comunista fino al giorno della Bolognina… E naturalmente era comunista Stalin mentre stringeva accordi con Hitler o mandava a massacrare i “trotskisti” (cioè i comunisti che non erano d’accordo con lui …) in Spagna e in giro per il mondo…
Se, invece, l’essere comunista si identifica (1) con il programma della rivoluzione proletaria e socialista (e non con il tradimento della rivoluzione in nome delle alleanze con la borghesia) e (2) con il programma dell’instaurazione del potere operaio (e non con la difesa del potere della burocrazia), allora è chiaro che, dalla seconda metà degli anni venti (difesa della burocrazia in URSS) o, comunque, dalla metà degli anni trenta del XX secolo (da quando ha adottato la politica dei “fronti popolari” e di alleanze con la borghesia “avanzata”), lo stalinismo non è più comunismo ma una variante del riformismo…

Su questa base, la storia dei comunisti in Italia si può suddividere in queste tappe:

– i comunisti nel PSI (Bordiga, l’Ordine Nuovo di Gramsci, ecc.): sono coloro che vogliono “fare come la Russia” in Italia, quando ancora non è nato il partito comunsta;

– la fondazione del Partito Comunista d’Italia e i suoi primi anni: in questi anni nel partito comunista sono comunisti sia la base sia i gruppi dirigenti, prima il gruppo dirigente attorno a Bordiga, poi quello attorno a Gramsci; ma per poco…

– la stalinizzazione del PCdI: il processo avviene per gradi e per tappe dalla seconda metà degli anni venti; per ciò che riguarda il gruppo dirigente i primi passi sono la “bolscevizzazione” (ossia l’esclusione di Bordiga dal gruppo dirigente e soprattutto l’allineamento a Mosca) e l’adesione di Togliatti alla frazione stalinista; il processo si perfeziona all’inizio degli anni trenta con l’espulsione dall’UP dei “tre” (Tresso, Leonetti, Ravazzoli) e con l’emarginazione di Gramsci (allora in carcere); infine con l’adesione alla linea dei “fronti popolari”; fra i militanti, invece, comincerà solo nel secondo dopoguerra…;

– l’adesione alla linea dei “fronti popolari” (1935): storicamente è, da parte dei gruppi dirigenti, il salto della barricata; che resta tuttavia virtuale fino alla “svolta di Salerno” (1944) e alla collaborazione con i governi post-fascist alla ricostruzione dello Stato (borghese);

– il primo “compromesso storico”; ossia la fase che porta, durante la lotta antifascista e subito dopo la fine della guerra, alla collaborazione con la borghesia per la stabilizzazione sociale e politica del paese e la ricostruzione dello Stato (borghese) nella forma di Stato repubblicano (e borghese…); artefice: Togliatti e il gruppo attorno a lui. La base operaia e partigiana non vive in modo convinto questa fase; sta qui la vera natura della “doppiezza togliattiana”: ossia un atteggiamento in cui convivono una politica di accordi moderati con la borghesia e i suoi partiti con teorizzazioni che lasciano vivere l’illusione che questa politica dissimuli una strategia di attesa dell’ora X per la conquista del potere… Si tratta per l’appunto delle “illusioni” di chi vuol farsi illudere…

– la fase dell’opposizione postbellica, fino all’ascesa operaia e alla crisi degli anni settanta: per i gruppi dirigenti si tratta di riaprirsi la strada verso il governo; prioritario è comunque il lavoro per l’integrazione del PCI nei rapporti politici e sociali esistenti. La teorizzazione della “via italiana al socialismo” cerca di tenere insieme la ricerca opportunista della via al governo praticata dai gruppi dirigenti (di fatto non dissimile da una strategia socialdemocratica) e le illusioni “comuniste” dei militanti…
Sarebbe bene che i comunisti che ancora oggi danno e si danno “alimento postumo” a queste illusioni si facciano un esame disincantato di quel periodo e comincino a guardare in faccia la realtà…

– il secondo “compromesso storico”, ossia la fase in cui il PCI di Berlinguer, con il contributo fondamentale della Cgil di Lama, salva la DC e la borghesia, ossia nella crisi degli anni settanta… Altro che Berlinguer punto di riferimento dei “comunisti da sempre”!
Berlinguer è l’incarnazione della linea del centro burocratico che cerca di avanzare verso nuovi accordi di governo con la DC e al tempo stesso cerca di preservare i legami di massa del partito, il tutto giocando sul mito (non sulla realtà) della “diversità” comunista…
Ma l’operazione finirà con un fallimento. I comunisti dentro al PCI finiscono per ritirarsi sempre più ai margini, mentre si fa strada e si afferma anche nelle coscienze dei militanti un aperto revisionismo che porta il PCI a prendere le distanze dal Cremlino, ad accettare la NATO e a far propria la logica delle compatibilità (borghesi) che si esprime nella filosofia dei due tempi perfino per ciò che riguarda le riforme: prima i sacrifici, poi le riforme. Ovviamente il secondo tempo non arriverà mai…
(Sul compromesso storico segnalo questo post con un saggio di Marco Ferrando che condivido pienamente: Il “compromesso storico”: il mito e la realtà).
Osservo che in questa fase una buona fetta di comunisti non è più interna al PCI: i settori giovanili, molti settori intellettuali, anche settori operai di grandi fabbriche (e anche no), militano nei gruppi e nell’estrema sinistra, ricercando strategie alternative al compromesso storico. Alcune saranno particolarmente disastrose (come il militarismo sostitutista delle Brigate rosse, Prima linea ecc.). Anche il resto dell’estrema sinistra non riuscirà a costruire un’alternativa al PCI…

– dal fallimento del “compromesso storico” alla liquidazione del PCI: fallito l’aggancio al governo perché la politica del “compromesso storico” porta al riflusso e, dal 1979-80, a una serie di sconfitte politiche e sociali a ripetizione, si creano le condizioni per il mutamento di DNA anche nel grosso della base del PCI. Il gruppo dirigente berlingueriano cercherà di ricostituire delle possibilità di pressione sulla borghesia cavalcando l’opposizione, ma questo non sblocca la situazione e, dopo la sua morte, prevale la linea del governo ad ogni costo.

– il passaggio del 1989/91: Quando il crollo del muro fa venir meno l’ostacolo “esterno” al coinvolgimento del PCI al governo di un paese della NATO come l’Italia, il gruppo dirigente si sbarazza rapidamente dell’eredità simbolica del comunismo, puntando ad un’operazione trasformista in grande stile che gli permetta di muovere senza impacci verso il centro del quadro politico: è l’operazione della Bolognina.
Che si rivela in effetti meno scontata e meno semplice di quanto Occhetto si figuri. Essa fa riemergere e riattiva una militanza comunista che era stata messa e/o si era tirata da parte negli ultimi anni. L’operazione di cambio dei simboli diventa così piuttosto laboriosa (due congressi) e tutt’altro che indolore: porta alla scissione e alla nascita del Partito della rifondazione comunista che guadagna rapidamente un ruolo e uno spazio elettorale tutt’altro che trascurabili.

– gli anni di Rifondazione: se sul piano elettorale il nuovo partito arriva a sfiorare nazionalmente il 9% (1996), dimostrando di aver saputo intercettare reali domande di massa, soprattutto di settori operai e giovanili, sul piano strategico non riuscirà mai a produrre una alternativa rivoluzionaria reale; i gruppi dirigenti maggioritari, tutti di provenienza togliattiana-berlingueriana o dalla sinistra socialista (Bertinotti), si dilanieranno per tutta la tormentata vita del PRC nello sport di contendersi il controllo del partito in genere contrapponendosi sul crinale (delle condizioni) dell’accordo di governo con un centrosinistra a sua volta sempre più spostato a destra e sempre più apertamente liberale.
Ricordo a questo proposito le scissioni “a destra” dei “comunisti unitari” (1995); dei “comunisti italiani” (Cossutta nel 1998); dei “comunisti libertari” (Vendola nel 2008)…

– L’esperienza del governo e la bancarotta. Culmine di questa vicenda è l’esperienza, quasi completamente “unitaria” per ciò che riguarda i gruppi dirigenti (ma anche la base, anche se in misura minore…), della partecipazione al governo Prodi dal 2006 al 2008… Esperienza (quasi) “unitaria” che sfocia nella lista (quasi) “unitaria” della Sinistra Arcobaleno e che si conclude con la scomparsa “unitaria” anch’essa dal parlamento nazionale…
Nel suo piccolo, questa fase può essere considerata il terzo “compromesso storico” a cui, nella storia d’Italia, partecipano Partiti sedicenti “comunisti”: e più dei precedenti, anche questo terzo “compromesso storico” è finito in un disastro…

Conclusioni.
E’ proprio da questo esito non casuale, punto di arrivo di una lunga vicenda storica, dalla comprensione delle sue ragioni lontane e vicine, che bisogna ripartire.
Pensare che basti costruire un’organizzazione, quale che sia, dei “comunisti da sempre”, e battezzarla “comunista”, e rivestirla dei simboli del comunismo, per rimontare la china, è l’ennesima ILLUSIONE.
L’illusione di chi ha con il progetto comunista un rapporto essenzialmente sentimentale ed affettivo, di identificazione con i suoi simboli e i suoi valori (vagamente intesi, per altro), ma che non è in grado di farlo diventare ANCHE un rapporto razionale, ossia fondato sull’esperienza e sulla riflessione sulle esperienze, ossia sull’intelligenza (= comprensione) delle vicende storiche…
Senza di ciò, non è possibile ipotizzare alcun “progetto comunista” che provi a rimontare la china, a (ri)parlare alle masse, a (ri)conquistarne la fiducia, a (ri)giocare le sue carte nel futuro prossimo e meno prossimo…

In realtà, in questa ricostruzione sommaria di novant’anni di disavventure dei “comunisti”, ho tralasciato ogni riferimento a una “famiglia” di comunisti, che pure ha fatto questa storia nel mondo e anche in Italia, e che tuttavia in alcuni passaggi fondamentali ha fatto scelte ben diverse.
Ossia ha fatto le scelte fondamentalmente giuste…

E’ la famiglia dei marxisti rivoluzionari (dei “trotskisti”, per accettare una semplicazione giornalistica).
Non ho intenzione di semplificare qui una storia che è tutt’altro che lineare e tutt’altro che priva di contraddizioni. Però le scelte che in alcuni momenti cruciali i comunisti di questo orientamento hanno fatto (certo, restando minoritari nel movimento comunista, ma forse non è proprio perché hanno prevalso altre opzioni che siamo arrivati a questo panorama di rovine?) dimostrano che UNA ALTERNATIVA ERA ED E’ POSSIBILE:

– anni trenta: NO al “fronte popolare” interclassista, SI al “fronte unico di classe”…

– Resistenza e dopoguerra: NO alla subordinazione della Resistenza al fronte interclassista; sviluppo delle sue potenzialità classiste e rivoluzionarie (chi ha sostenuto queste posizioni è stato spesso eliminato anche fisicamente dagli stalinisti durante la guerra partigiana…).

– crisi degli anni settanta: NO al “compromesso storico” con la DC e la borghesia, SI alla lotta di classe per cacciare la DC e aprire la strada del potere dei lavoratori…

Negli anni di Rifondazione:

– 1994: NO al “polo dei progressisti”, si al polo anticapitalista di classe, costruzione su queste basi di una alternativa strategica (anche dentro il PRC, in alternativa ai gruppi dirigenti riformisti…).

– 1996-98: NO al sostegno esterno al governo Prodi, OPPOSIZIONE coerente secondo una logica di classe (e opposizione coerente nel PRC, sia a Cossutta sia a Bertinotti…).

– 2002-2006, gli anni di avvicinamento all’accordo di governo con il centrosinistra: NO a ogni accordo con il centrosinistra; costruzione di un coerente PROGETTO COMUNISTA su basi anticapitalistiche e classiste: annuncio che NON SI FARA’ VENIR MENO L’OPPOSIZIONE POLITICA DI SINISTRA in questo paese nel caso si realizzi l’ipotesi della partecipazione al governo…

– 2006-08: i comunisti coerenti abbandonano il PRC, che ormai ha fatto il suo salto della barricata, e lavorano con pazienza:
1) a costruire la più ampia e unitaria OPPOSIZIONE DI CLASSE (sulla guerra, sulle missioni militari, sullo scippo del TFR, sulle finanziarie lacrime e sangue, ecc.);
2) a costruire un NUOVO PARTITO COMUNISTA, su una base programmatica chiara: a) No a ogni politica di collaborazione di classe con la borghesia; b) No allo stalinismo; c) una strategia di lotta per il potere fondata sul metodo degli obiettivi transitori; d) internazionalismo nei principi e nell’organizzazione.

I comunisti che in questi ultimi anni hanno fatto questo percorso sono quelli che hanno costituito nel gennaio del 2008 il PARTITO COMUNISTA DEI LAVORATORI: il primo autentico PARTITO COMUNISTA in Italia dalla metà degli anni trenta del XX secolo! Questa è già un dato storico con cui tutti coloro che si dicono “comunisti” dovrebbero confrontarsi…

E’ vero d’altra parte che non tutti i “comunisti” sono nel PCL, purtroppo.
Lo sappiamo.

Ma quelli che sono nel PCL sono comunisti che hanno capito che all’essere comunisti non si connette solo un significato emotivo e sentimentale, o al più valoriale; essere comunisti significa anche condividere un progetto che si fonda su una riflessione razionale, sul bilancio dell’esperienza storica, su precise scelte programmatiche e strategiche che sono passate al vaglio di questa esperienza.
Sono comunisti “con il cuore e con il cervello”. Come hanno insegnato a suo tempo Marx ed Engels, Lenin e Trotsky…
E’ su queste basi che i comunisti del PCL possono professare oggi, con Antonio Gramsci, il pessimismo della ragione ma insieme l’ottimismo della volontà…

Articolo dell’agosto 2009 di Tiziano Bagarolo

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